Autocritica: un viaggio nel dialogo interiore che alimenta il malessere psicologico

di Luciana Ciringione

Negli ultimi anni la ricerca clinica si sta concentrando sempre di più sullo studio dell’autocritica, non solo per la sua capacità di influenzare profondamente lo stato di salute mentale degli individui, ma anche per il suo impatto sullo sviluppo e sul trattamento di diverse condizioni psicopatologiche.

Si definisce “autocritica” una modalità di auto-valutazione e auto-analisi che, quando raggiunge livelli patologici, si manifesta attraverso un dialogo interno ostile e auto-punitivo (Gilbert et al., 2004). Nell’articolo «You’re Ugly and Bad!»: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms (Papa et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Current Psychology, gli autori e le autrici hanno evidenziato l’importanza del considerare le caratteristiche specifiche dell’autocritica per meglio comprendere e trattare le diverse psicopatologie.

In particolare, viene sottolineato l’aspetto transdiagnostico dell’autocritica, il quale influisce negativamente sulla salute mentale degli individui associandosi a varie forme di psicopatologia come, ad esempio, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi alimentari. I risultati dello studio mostrano come l’autocritica assuma specifiche caratteristiche in relazione al funzionamento psicologico individuale e, in particolare, al profilo interno dei diversi disturbi (Papa et al., 2024). Ad esempio, in individui che riportano sintomatologia di ansia sociale, l’autocritica tende a manifestarsi sotto forma di confronto costante con gli altri, percepiti come superiori e/o critici: questo meccanismo genera sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che alimentano la paura del giudizio altrui (Thompson & Zuroff, 2004). Nei disturbi alimentari, invece, l’autocritica è spesso legata al perfezionismo, con standard irrealistici riguardanti il proprio corpo. Infine, nel disturbo ossessivo-compulsivo, l’autocritica si manifesta con un atteggiamento punitivo verso sé stessi per non aver rispettato standard morali estremamente elevati (Mancini et al., 2021).

Si identificano, in particolare, due forme principali di autocritica: l’inadequate-self, legato a un senso di fallimento e frustrazione in risposta ai fallimenti, e l’hated-self, caratterizzato da sentimenti di disgusto e odio verso sé stessi (Gilbert et al., 2004). L’inadequate-self è più comune nei disturbi come l’ansia sociale, dove l’individuo si sente costantemente inferiore rispetto agli altri considerati più “adeguati”. L’hated-self, d’altra parte, è più strettamente associato ai disturbi alimentari e al disturbo ossessivo-compulsivo, dove il soggetto può arrivare a sviluppare un profondo disprezzo per sé stesso all’idea di non riuscire a raggiungere gli irrealistici standard di tipo sociale o morale. Infatti, nella relazione fra queste due forme di autocritica e lo sviluppo di sintomatologia, particolare rilevanza sembra assumere l’autocritica comparativa che si focalizza sul confronto svantaggioso con gli altri (Thompson & Zuroff, 2004).

Lo studio di Papa e collaboratori (2024) sottolinea, inoltre, come l’autocritica si intrecci spesso con l’alessitimia, ovvero la difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni (Sifneos, 1973). Gli individui con elevati livelli di autocritica, infatti, tendono a evitare di entrare in contatto con i propri stati emotivi, ostacolando l’elaborazione delle emozioni negative e rafforzando i sentimenti di inadeguatezza (Gilbert et al., 2011). Inoltre, la presenza di alessitimia predispone all’utilizzo di strategie di regolazione emotiva disadattive, come l’autocritica, creando un circolo vizioso di difficoltà emotive e pensieri auto-punitivi che mantengono la sintomatologia (Pascual-Leone et al., 2016).

Alla luce di queste evidenze, risulta fondamentale distinguere le diverse forme di autocritica nei pazienti per sviluppare interventi terapeutici mirati. I trattamenti che integrano la consapevolezza delle emozioni, come la schema therapy attraverso il chairwork, stanno dimostrando di essere particolarmente efficaci nel ridurre l’autocritica e migliorare il benessere emotivo (Young et al., 2003).

Si può, quindi, considerare l’autocritica come un fenomeno eterogeneo e multidimensionale che incide significativamente sulla salute mentale degli individui. Comprenderla in modo approfondito consente non solo di delineare strategie di intervento più efficaci, ma anche di promuovere una maggiore consapevolezza emotiva nei pazienti, migliorando così i risultati degli interventi clinici.

Bibliografia

Gilbert, P., Clarke, M., Hempel, S., Miles, J. N., & Irons, C. (2004). Crit­icizing and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. British Journal of Clinical Psychol­ogy, 43(1), 31–50.

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of com­passion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory Research and Practice, 84(3), 239– 255.

Mancini, F., Luppino, O. I., & Tenore, K. (2021). Disturbo ossessivo-compulsivo. In Perdighe, C., & Gragnani, A. (Cur.) Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali (pp 511–558). Raffaello Cortina Editore.

Papa, C., D’Olimpio, F., Zaccari, V., Di Consiglio, M., Mancini, F., & Couyoumdjian, A. (2024). “You’re Ugly and Bad!“: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms. Current Psychology, 1-16.

Pascual-Leone, A., Gillespie, N. M., Orr, E. S., & Harrington, S. J. (2016). Measuring subtypes of emotion regulation: From broad behavioural skills to idiosyncratic meaning‐making. Clini­cal Psychology & Psychotherapy, 23(3), 203–216.

Sifneos, P. E. (1973). The prevalence of ‘alexithymic’characteristics in psychosomatic patients. Psychotherapy and Psychosomatics, 22(2–6), 255–262.

Thompson, R., & Zuroff, D. C. (2004). The levels of self-criticism scale: Comparative self-criticism and internalized self-criticism. Personality and Individual Differences, 36(2), 419–430.

Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema therapy: A practitioner’s guide. Guilford Press.

Perfezionismo: la paura di sentirsi mediocri

di Giuseppe Grossi

C’è una crepa in ogni cosa. È da lì che entra la luce (Leonard Cohen)

Giorno dopo giorno apriamo le porte dei nostri studi interrogandoci su quelle che saranno le difficoltà che incontreremo, quale nuova sfida ci porterà il paziente della mattina e quello della sera. Ci ritroviamo a ragionare e riflettere tornando a casa in macchina, sul treno o sulla metro, cercando di trovare il capo che possa sciogliere la matassa. E così, da giorni, sono fermo a osservare, incantato, una nuova sfida. Ripercorro mentalmente i passaggi della terapia e i racconti di alcuni dei mei pazienti, pensando a quanto siano speciali.  Solo dopo mesi e ore di terapia mi ricordo quella posizione socratica che mi ha affascinato, spingendomi verso un modo di fare terapia in cui nulla è scontato. E inizio a ragionare sul perché dico questo: perché quando penso a Cristiana, Flavio o altri la prima cosa che mi viene da considerare è quanto siano speciali? Nello stesso momento in cui mi pongo la domanda nasce in me una sfida, un dibattito tra due forze opposte che mi catapultano in uno dei miti più amati e discussi da sempre: Narciso. Penso a lui e per un momento mi fermo sulla sua condanna di essere il più bello, tanto da ritenersi ed essere considerato unico e speciale. Poi torno con la mente a Cristiana, entro nella sua cameretta piena di specchi e la vedo con in mano una lametta e il desiderio di tagliare le sue parti imperfette, ciò che la renderebbero “mediocre”. Ripenso al continuo tentativo di buttare via quelle parti per essere migliore. Penso al suo disturbo alimentare e al desiderio di scomparire pur di non vedere quella imperfezione, pur di aumentare lo spazio tra le gambe e sentirsi per un attimo bella, migliore.  Immagino questo stato dissolversi nel disperato desiderio di fare ancora un po’ di più, un po’ più di prima. E così si riparte con uno sforzo ulteriore, con l’obiettivo più alto che la renderebbe ancora più bella. Inerme, la vedo arrivare a un inevitabile fallimento, la disperata conclusione che nulla la condurrà a quella perfezione. Disperata nel proprio dolore, Cristiana vaga sempre più nel buio, alla ricerca del proprio valore, confrontandosi con un’immagine che è semplicemente il frutto delle parole del suo profeta, colui che la vede essere il 10 a scuola, sempre più magra e da tutti amata. Siamo sicuri che ciò che ha spinto Narciso ad annegare nello stagno sia la sua vanità? Che Cristiana abbia assunto 30 pasticche di Xanax per amore della sua immagine riflessa negli specchi della cameretta, tra foto ricordo e pagelle incorniciate? Vi sembra ovvio pensare che continui a tagliarsi perché innamorata della sua perfezione e non che quello specchio, quel voto a scuola e altro abbia svelato la sua vera natura e la normale imperfezione? “Preferisco essere niente che essere mediocre”: queste le parole di Cristiana, dopo aver tentato più volte di togliersi la vita. Oggi lei, come molti, si trova a combattere contro la necessità di sentirsi speciale, di essere perfetta. Cosa avrebbe detto Liriope se tornando a casa il figlio Narcisio le avesse raccontato di quella imperfezione riflessa nelle acque dello stagno? Cosa sarebbe accaduto se Liriope non avesse tolto tutti gli specchi, dando a Narciso la possibilità di osservare la sua reale natura e forse anche una normale imperfezione? E ancora, facendo un piccolo passo indietro, cosa sarebbe accaduto a Narciso se il profeta non avesse raccontato a sua madre quel tragico destino? Troppo spesso ci sforziamo di essere quello che crediamo di dovere essere, incastrati dalle paure più profonde e lontani dai desideri personali, convinti che esista un solo modo per essere felici.

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Disturbi alimentari e memorie infantili

di Giulia Signorini

Esplorare le esperienze di vita precoci tramite l’impiego di tecniche immaginative

Restrizione calorica, abbuffate, condotte compensatorie (vomito autoindotto, utilizzo di lassativi, esercizio fisico eccessivo, etc.), pensiero massimamente focalizzato sul peso e sulla forma corporea, emozioni di vergogna, colpa, disgusto, ma anche ansia, rabbia (spesso inespressa) e solitudine… Il tutto accompagnato da una grande ambivalenza nei confronti del trattamento e del cambiamento: questi sono i termini che descrivono solitamente i disturbi del comportamento alimentare (DCA), per lo meno in prima battuta.

Sì perché il comportamento alimentare può essere letto non solo come la chiara espressione di un disagio clinico, ma anche come un modo (e un mondo) attraverso cui l’individuo è riuscito a trovare un equilibrio, per quanto disfunzionale sia nel lungo termine, una soluzione che gli consente di sopravvivere al meglio delle sue attuali consapevolezze e risorse. Sopravvivere a che cosa? Questa è la domanda interessante. E qui entra in gioco l’indagine del terapeuta: “Cosa c’entrano i miei genitori con tutto questo? Io non ho problemi con loro, ma con il cibo!” – plausibile obiezione dei pazienti quando vengono rivolte loro domande relative all’infanzia e alla relazione con le loro figure di accudimento. Accanto, infatti, a fattori temperamentali, fisici e socioculturali, le prime interazioni con le figure di accudimento primarie e l’ambiente familiare giocano un ruolo decisivo nello sviluppo dei disturbi alimentari (e nella psicopatologia in generale). Indagare le memorie infantili ha quindi molto a che fare proprio con l’individuo di oggi e i suoi problemi attuali, con ciò che in tempi “non sospetti” lui/lei ha imparato riguardo sé, il mondo, le relazioni, cosa ha valore e cosa non è importante.

In Schema Therapy, modello teorico e approccio terapeutico appartenente alla cosiddetta “terza ondata” del Cognitivismo, l’esplorazione dei contenuti relativi ai ricordi infantili ha come obiettivo l’identificazione dei bisogni emotivi non soddisfatti, a partire dai quali si formano gli schemi maladattivi precoci, che sottendono al funzionamento psicopatologico del paziente. Per questo tipo di indagine, ci si avvale anche di tecniche immaginative, attraverso le quali il terapeuta può sfruttare il grande potere dell’immaginazione umana e metterlo al servizio della terapia, sia in fase diagnostica (imagery diagnostico) sia in fase di trattamento (imagery with rescripting). Si tratta di tecniche potenti, da utilizzare dopo una specifica formazione, che consentono di bypassare filtri di natura cognitiva/razionale, solitamente attivi durante una narrazione verbale.

Proprio l’impiego dell’imagery diagnostico è stato oggetto dello studio condotto da Barbara Basile e colleghi, recentemente pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology. Il gruppo di ricerca ha coinvolto 49 pazienti affette da DCA (33 con diagnosi di Anoressia Nervosa e 16 di Bulimia Nervosa), ricoverate presso la casa di cura Villa Garda, in provincia di Verona, allo scopo di indagare i bisogni emotivi non soddisfatti legati a ricordi infantili. Gli autori erano interessati a capire, in particolare, se ci fossero dei bisogni infantili associati in modo specifico a particolari schemi (della paziente o del genitore, indagati attraverso specifici questionari self report) e anche a eventuali specificità di schemi o bisogni emotivi nell’Anoressia e nella Bulimia nervosa.

Lo studio ha rivelato che le esperienze negative infantili evocate durante la procedura di imagery riguardavano per la maggior parte dei casi la figura materna, evidenziando prevalentemente il non soddisfacimento dei bisogni di:

  • sicurezza e protezione, tipicamente legato a episodi di abusi fisici/sessuali/psicologici subiti dal paziente o forti litigi tra genitori in presenza del bambino – associato agli schemi di deprivazione e inibizione emotiva di entrambi i genitori e agli schemi di deprivazione emotiva e fallimento dei pazienti;
  • accudimento e cura: in relazione a momenti in cui uno o entrambi i genitori non erano in grado di occuparsi del bambino, abbandonandolo o non riuscendo a gestire una situazione negativa, mancando in stabilità e prevedibilità – associato agli schemi di dipendenza del paziente e pessimismo/negativismo da parte del padre;
  • espressione emotiva: tipico di quando vengono derise, ignorate o punite manifestazioni spontanee, o quando i bisogni altrui o le regole esterne sono considerate più importanti di quelle del bambino – associato allo schema di deprivazione emotiva da parte del padre.

Dalle descrizioni delle pazienti emerge una figura materna vulnerabile ai pericoli, prona all’autosacrificio, più abbandonica e allo stesso tempo più invischiata rispetto alla figura paterna, che, invece, è percepita come più inibita emotivamente e trascurante rispetto quella materna.

Inoltre, gli schemi individuali di invischiamento delle pazienti correlano con quelli materni di invischiamento, sottomissione e punizione. Proprio l’invischiamento, così come la vulnerabilità ai pericoli, potrebbe essere letto, secondo gli autori, come un modo disfunzionale di fornire protezione, limitando e scoraggiando lo sviluppo dell’indipendenza e dell’autonomia del bambino.

Per quanto riguarda le differenze tra gruppi diagnostici, i risultati dello studio hanno rivelato che i bisogni non soddisfatti di cura, accudimento e attaccamento sicuro sono significativamente associati solo alla diagnosi di Bulimia Nervosa, e che le pazienti di questo gruppo riportano maggiormente lo schema di autocontrollo insufficiente rispetto al gruppo di pazienti con Anoressia Nervosa.

Quali implicazioni per la pratica clinica?

I DCA hanno visto un vertiginoso aumento nel corso della pandemia: stando ai dati raccolti dall’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione clinica (ADI), l’incidenza dei casi è salita di oltre il 30% tra febbraio 2020 e febbraio 2021.

L’indagine dei bisogni emotivi non soddisfatti attraverso l’imagery diagnostico può rappresentare un ottimo punto di partenza per esplorare gli schemi degli individui affetti da questo disturbo, a partire proprio dal senso che queste narrazioni hanno permesso di dare a esperienze infantili negative. In altre parole, più che all’evento realmente accaduto, attraverso queste esplorazioni, al terapeuta interessa identificare le storie (schemi) che il paziente ha imparato a raccontarsi per dare un senso a quanto accaduto. Questo permette poi di collegare gli schemi (es. “Sono un peso per gli altri”; “Non sono amabile”; “Quello che provo è sbagliato”) alle strategie di coping disfunzionali che il paziente con DCA mette in atto (restrizione, ipercontrollo, abbuffate, etc.) – per sopravvivere alla sofferenza indotta dagli schemi stessi – e di lavorarci in terapia più consapevolmente.

Come auspicano gli autori dello studio, infine, sarebbe interessante esplorare in future ricerche la possibilità di predire gli esiti del trattamento a partire proprio da specifici schemi individuali o genitoriali.

Per approfondimenti

Basile, B., Novello, C., Calugi, S., Dalle Grave, R., Mancini, F. (2021). Childhood Memories in Eating Disorders: An Explorative Study Using Diagnostic Imagery. Frontiers in Psychology, July (12), https://doi.org/10.3389/fpsyg.2021.685194

Simpson, S., Smith, E. (2020). Schema Therapy for Eating Disorders: Theory and Practice for Individual and Group Settings. Routledge Editore.

Young, J.E., Klosko, J.S.; Weishaar M.E. (2003). Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità. Edizione italiana a cura di A.Carrozza, N. Marsigli e G. Melli. Eclipsi Editore.

/2021/01/24/rescripting-un-metodo-per-intervenire-sulle-esperienze-dolorose-precoci/

/2016/05/06/la-schema-therapy-uno-sguardo-ai-bisogni-e-alle-emozioni-delleta-infantile/

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Fame emotiva ai tempi del Coronavirus

di Rossella Cascone

L’ emotional eating è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo

Il cibo desta da sempre molto interesse nelle persone, risulta una fonte di benessere e lo si accomuna spesso a eventi sociali ed emotivi che esulano dalla fame.

In particolare, il “confort food” è un cibo consolatorio che si associa a momenti piacevoli del passato o che permette di affrontare un momento difficile: le persone lo consumano perché ritengono possa aiutarle a gestire delle situazioni critiche, come ridurre lo stress o emozioni di noia, rabbia, ansia. In questo modo, si mangia senza realmente essere affamati.

A causa dell’attuale emergenza sanitaria, ogni individuo sperimenta differenti emozioni, fondamentali per il suo funzionamento ma che lo rendono più vulnerabile.

Ansia e angoscia per l’imprevedibilità della minaccia, solitudine e tristezza per le ridotte, se non inesistenti, relazioni sociali, sono tra le principali emozioni provate, ma anche senso di colpa per un possibile contagio dei cari (pensiamo, ad esempio, al personale sanitario), o semplicemente noia perché non si sa come occupare le giornate.

Uno dei rischi che si corre in questi giorni in cui si è costretti a restare in casa per l’emergenza Coronavirus, è proprio quello di consolarsi con il cibo, ricercando un conforto in esso.

Il mangiare spinti da “cause” emotive o in relazione a stati emotivi (emotional eating) è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo, che può dare luogo, in casi più gravi, al disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder).

Questo comportamento spesso viene messo in atto in modo automatico, senza averne consapevolezza, e non risolve i problemi emotivi ma, al contrario, li aggrava, poiché alle emozioni negative si associa il senso di colpa per aver mangiato “troppo” o cibi non necessari e dannosi. In questo modo si tende a peggiorare lo stato psicofisico della persona.

Al contrario della fame fisica, ovvero lo stimolo che avverte della necessità dell’organismo di ricevere nutrienti, la fame emotiva arriva quando processi cognitivi, di pensiero, fanno venire la voglia di un determinato cibo. Per tale ragione, risulta essere improvvisa e urgente, anche se si è finito di mangiare da poco tempo, si manifesta con insistenza ed è molto specifica (“ho proprio voglia di gelato”), e non si frena quando il senso di pienezza è stato raggiunto.

La fame emotiva viene avvertita nella testa e non nello stomaco, pensando al sapore e all’odore del cibo di cui si ha voglia, ed è caratterizzata da un mangiare inconsapevole che porta a finire una scatola di biscotti o una busta di caramelle senza averle assaporate.

Inevitabilmente, questo comportamento genera un senso di colpa che può essere seguito, in alcuni casi, da un’emozione di vergogna.

È chiaro che non è sempre sbagliato utilizzare il cibo come mezzo per sentirsi meglio, lo diventa se ogni volta che si è stanchi, arrabbiati o delusi si fa ricorso al cibo per sentirsi meglio.

Succede spesso che le persone non sappiano definire bene il sentimento negativo che provano e che tendano a mangiare quando l’emozione non è “etichettata”. Inoltre, all’interno del mondo dei “mangiatori emotivi”, si incontrano persone consapevoli di esserlo ma che, incastrati in questo circolo vizioso, non riescono a uscirne. Vi sono poi i “mangiatori emotivi” inconsapevoli, che rappresentano la maggioranza del gruppo, i quali associano le problematiche legate al peso a credenze erronee come metabolismo lento, problemi ormonali o problemi alla tiroide, i quali credono che un medicinale o un intervento risolva il problema. Anche in questo caso, oltre a un atteggiamento deresponsabilizzante, vi è una scarsa consapevolezza.

Per spezzare il circolo doloroso dell’emotional eating è di fondamentale importanza conoscere e saper identificare le proprie emozioni ed esprimerle. Di fatto, imparare a riconoscere l’emozione che scatena la fame emotiva è un passo importante per imparare a gestire la dipendenza dal cibo e quindi per cambiare le abitudini.

In questo momento di emergenza, una delle attività ricreative o di “distrazione” è inevitabilmente mettersi ai fornelli e cucinare.

Uno dei modi per contrastare la fame emotiva è puntare alla qualità del cibo, riducendo le quantità, e impegnando il proprio tempo nella preparazione di piatti particolari ed elaborati, evitando di mangiare in piedi e correre in dispensa quando si ha un attacco di fame.

Bisogna però ricordare che nei momenti critici non vi è solo il cibo: concentrarsi su attività di svago o passioni accantonate, condividere le proprie emozioni con persone di fiducia sono valide alternative che possono essere d’aiuto.

Per approfondimenti

American Psychiatric Association (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Tr. It. Masson, Milano 2004.

Beck  J.S. “Dimagrire con il metodo Beck: impara a pensare magro”, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson, 2008.

Medde P., Reposati A. “Psicologia e alimentazione: 5 passi per controllare la “fame emotiva”, . Roma, 2014, https://www.ordinepsicologilazio.it/risorse/psicologia-e-alimentazione/ (consultato il 29 marzo 2020).

Smith M., Segal J., Segal R. “Emotional Eating and How to Stop It”, 2019, https://www.helpguide.org/articles/diet-weight-loss/emotional-eating.htm

 

Sono, dunque mangio (troppo)?

di Barbara Basile

 Quasi un terzo della popolazione adulta italiana è in sovrappeso e le cure, efficaci all’inizio, non perdurano nel tempo: come mai?

 In Europa, nel 2016, per una porzione che va tra il 15% e il 30%, la popolazione veniva identificata come obesa, con una percentuale particolarmente elevata in Paesi come la Gran Bretagna, la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Nel 2012 in Italia oltre il 31% delle donne in età adulta era in sovrappeso e il 25% presentava una vera e propria obesità. Si parla di sovrappeso quando l’Indice di massa corporea (IMC) dell’individuo, valutato in base al peso in funzione dell’altezza, è tra 25 e 30, mentre si definisce “obeso” chi ha un IMC che supera il valore di 30.

Gli interventi volti a ridurre il sovrappeso e l’obesità includono sia trattamenti chirurgici, come l’inserimento di bypass gastrici, gastrectomie e bendaggio gastrico, sia terapie psicologiche come la cognitivo-comportamentale, affiancata dall’educazione alimentare e dall’incremento dell’attività fisica. Entrambi i tipi di trattamenti, anche combinati, risultano efficaci nel breve termine, ma purtroppo i risultati ottenuti, in termini di diminuzione di peso e modificazioni dello stile alimentare, non perdurano nel tempo. I motivi che spiegano la scarsa stabilità dei risultati iniziali sono poco chiari. Uno dei fattori che sicuramente gioca un ruolo è rappresentato dalla difficoltà dei pazienti a stabilizzare il nuovo regime alimentare, senza ricadere nei soliti circoli viziosi. È ragionevole ipotizzare che nell’individuo obeso o sovrappeso vi siano dei meccanismi di disfunzionali consolidati nel tempo e che questi in qualche modo interferiscano con il consolidamento dei nuovi apprendimenti.

Il modello psicoterapico integrato della Schema Therapy nasce negli USA con Jeffrey Young nel 2003, con lo scopo di curare disturbi emotivi e relazionali radicati nel tempo. Recentemente questo modello è stato usato come base per indagare le caratteristiche di personalità più radicate, definite come “schemi maladattivi precoci”, e le strategie di fronteggiamento alle avversità (definite come “coping mode”) in soggetti in sovrappeso, obesi o in generale in individui con grave dipendenza da cibo. Si è osservato che gli schemi più caratteristici di questi individui includono un profondo senso di isolamento sociale, non appartenenza ed esclusione, anche verso la famiglia, e un’immagine di sé come inadeguati e profondamente sbagliati, accompagnati da un generico senso di fallimento (in ambito scolastico/professionale).

In un recente lavoro di Francesco Mancini e collaboratori, è emerso che, rispetto a persone normopeso, quelle obese presentano schemi di abbandono (associati al timore di poter essere lasciati o alle separazioni in genere), dipendenza e sottomissione agli altri e una pervasiva difficoltà a esercitare l’autocontrollo e a tollerare momenti di frustrazione e stati emotivi negativi. Le strategie di fronteggiamento/coping, solitamente sviluppate negli anni infantili e adolescenziali come risposte adattive all’ambiente, facevano principalmente riferimento all’evitare, presumibilmente tramite il potere auto-consolatore del cibo, i propri vissuti negativi. A confermare questo dato, un’associazione positiva tra la frequenza delle abbuffate, l’intensità dei sintomi bulimici e la tendenza all’evitamento emotivo (definito dalla letteratura come “mode del protettore”), solamente nei soggetti obesi. Un ultimo dato interessante ha rivelato che sembra proprio che siano i comportamenti di evitamento i principali responsabili nel mediare la relazione tra gli schemi disfunzionali (di abbandono, abuso, sia emotivo che fisico, la sottomissione e l’autocontrollo insufficiente) e la frequenza delle abbuffate.

Questo dato è coerente con alcuni studi che hanno indagato l’effetto della strumentalizzazione del cibo (instrumental feeding) usato dai genitori in età infantile. È stato dimostrato come l’utilizzo del cibo come premio o punizione da parte dei genitori verso i bambini sia associato, in età adulta, all’alimentazione emotiva, alla tendenza a spiluccare, alla sovra-alimentazione, alla bulimia e al sovrappeso in genere. Queste evidenze confermano l’utilità di approfondire e intervenire sugli schemi di personalità radicati nel tempo e sulle abitudini alimentari che si sviluppano precocemente sotto forma di strategie di fronteggiamento nei pazienti obesi per incrementare l’efficacia dell’intervento.

Riferimenti

Basile B, Tenore K., Mancini F. “Maladaptive schemas, modes and coping strategies in overweight and obesity”, I Congresso Nazionale di Schema Therapy, Ottobre 2018, Roma

Le esperienze passate nell’Anoressia Nervosa

di Barbara Basile

 Quali sono le esperienze relazionali infantili che predispongono allo sviluppo del disturbo psichico con il più alto tasso di mortalità?

L’Anoressia Nervosa (AN) insorge tipicamente in età adolescenziale, anche se negli ultimi anni l’età di esordio si è abbassata drasticamente, fino a toccare l’infanzia. La prevalenza si aggira attorno all’1,7% nelle femmine e allo 0,1% nei maschi e il disturbo, sviluppatosi tipicamente nei Paesi occidentali, si sta diffondendo in culture non occidentali e, in particolare, nei Paesi emergenti (Cina e altri Paesi asiatici).
L’anoressia è la patologia mentale con il più alto tasso di mortalità: tra il 5 e il 20% delle persone affette da questo disturbo alimentare perde la vita (nel 2016 in Germania a causa dell’AN sono morte quasi 40 persone!). La principale causa di morte deriva da complicanze mediche, legate soprattutto a problemi cardiaci. Le conseguenze sull’organismo includono la brachicardia, con consecutiva riduzione del volume cardiaco, la riduzione di calcio nelle ossa, la carenza di vitamina B12, sbalzi ormonali, fatica cronica e spossatezza, disidratazione, perdita dei capelli, pelle secca e aumento della produzione pilifera su tutto il corpo.

Quello che sostiene le pazienti con AN nel loro disturbo è lo scopo del “non essere grasse”. A questo obiettivo si accompagnano la distorsione dell’immagine corporea, un’ossessione perfezionistica che riguarda le forme del corpo e il cibo, e che spesso si estende ad altri ambiti di performance, una iper-focalizazione (sia cognitiva che comportamentale) sul cibo e sul corpo, a discapito dell’investimento su altre aree della vita e conseguenti strategie per ridurre l’aumento del peso o favorire la sua riduzione.

Ma quali sono i fattori di vulnerabilità, ovvero le esperienze di vita, soprattutto di natura relazionale, che predispongono allo sviluppo di questi sintomi? È possibile identificare delle caratteristiche familiari che creano una maggiore sensibilità all’eccessivo timore di “essere grasse”, al punto da mettere a rischio la propria vita?
La letteratura scientifica, purtroppo, ci dà scarse risposte. I pochi studi che hanno esplorato il problema rivelano che le pazienti con anoressia mostrano degli standard genitoriali molto severi e un perfezionismo di base significativamente superiori sia alle persone sane, che a pazienti affetti da altri disturbi psichici. Inoltre, considerando i diversi tipi di disturbi del comportamento alimentare, sembra che rispetto alle persone con Bulimia Nervosa, le pazienti con AN riportano un minor livello di protezione e sicurezza da parte della figura paterna. Da un recente studio preliminare, presentato alla prima edizione del Congresso Nazionale di Schema Therapy, è emerso che le pazienti con AN (confrontate con ragazze sane della stessa età) riportavano un eccessivo coinvolgimento, sia fisico che emotivo, da parte della figura materna, che in questo modo compromette un adeguato sviluppo del sé e dell’identità della figlia. Il padre, invece, è stato descritto come inibito e rigido sul piano della manifestazione delle emozioni e dei bisogni. L’ipercriticismo materno e la tendenza della madre ad avere degli standard molto severi predicevano, altresì, la gravità della sintomatologia anoressica e l’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee delle pazienti. Già autori come Minuchin, nel 1978, e Bruch, nel 2003, sostenevano che il cibo e il suo rifiuto potrebbero rappresentare per la ragazza anoressica l’estrema possibilità di opporsi in modo concreto e lampante all’iper-coinvolgimento materno, nel tentativo di rendersi indipendente e distaccarsi da un ambiente familiare invischiante, ipercritico e spesso invalidante sul piano dei vissuti emotivi, dei bisogni e desideri. Le esperienze precoci hanno indiscutibilmente un ruolo nel contribuire allo sviluppo di una vulnerabilità all’AN, così come degli altri disturbi del comportamento alimentare, e una buona parte di questi fattori va ricercata nell’ambiente familiare di origine, oltre che nelle già note dinamiche legate alla cultura (mistificazione dell’apparenza e pressione alla magrezza) e dello stato sociale di appartenenza.

Anoressia? È anche maschile

di Giuseppe Femia
illustrazioni di Elena Bilotta

Nella pratica clinica capita di riscontrare quadri di anoressia classica negli uomini e alle volte questo avviene in una fase tardiva del ciclo vitale
L’anoressia maschile spesso è stata trascurata a causa della credenza che la concepisce come un disordine prevalentemente femminile. Nonostante questa assunzione sia in parte vera, attualmente si riscontrano molti casi di anoressia restrittiva o “riversa” negli uomini.
Spesso si rileva una connessione con un senso d’identità fragile e disturbi nella sfera del comportamento sessuale. Tale relazione fra le forme di anoressia nervosa e la presenza di un’identità di genere problematica o di disfunzioni relative alla sessualità, seppur dimostrata parzialmente, appare consolidata.
Inoltre potrebbe osservarsi un’associazione fra i comportamenti restrittivi di tipo alimentare negli uomini e disagi di matrice affettiva, nello specifico di tipo depressivo, oppure una comorbidità con tratti latenti di narcisismo o con caratteristiche proprie del disturbo ossessivo compulsivo di personalità.
Si osservano molte forme di anoressia “riversa” in cui si riscontrano tutte le caratteristiche di funzionamento che solitamente determinano i disturbi alimentari quali: iper-attenzione e iper-vigilanza per le forme corporee e lo scopo della buona immagine, problemi di dismorfofobia, esercizi fisici spasmodici e problemi comportamentali generalizzati, con l’eccezione che in questa forma l’obiettivo non è solo “non accrescere di peso” ma, in particolare, raggiungere l’ideale a livello di immagine e tono muscolare, provando sempre una profonda frustrazione e mettendo in moto una sorta di chiusura in un mondo ossessionato e privo di altri valori di riferimento.
Questa forma di anoressia, dapprima denominata come “il complesso di Adone”, attualmente viene definita “vigoressia” e, nonostante riguardi di più gli uomini, sta iniziando a diffondersi anche fra le donne.
Il “perfezionismo clinico” governa, la dedizione al lavoro fisico sfinisce e il piacere viene sospeso, compreso quello sessuale. Spesso l’adrenalina derivante dall’attività sportiva sostituisce tutto il resto e copre problematiche individuali e familiari che rimangono irrisolte.
Il disagio diventa affettivo, una sorta di ritiro generalizzato dai sentimenti, una specie di chiusura verso gli altri, il mondo e la costruzione di legami intimi, duraturi e autentici.
Dietro le manifestazioni di tipo restrittivo, classiche e non solo, si riscontrano emozioni di rabbia, vergogna e orgoglio. Questa configurazione emotiva sembra caratterizzare particolarmente il mondo affettivo dei pazienti con disturbi alimentari.

F. ha 24 anni e trascorre la maggior parte del suo tempo in palestra, segue un regime alimentare proteico, si preoccupa del proprio fisico in modo incessante, controlla la massa corporea, parla di adipe e cerca di raggiungere un fisico muscoloso e sempre orientato a un ideale di perfezione stereotipato.
Questa sua iper-attenzione e i continui allenamenti non gli permettono di riflettere su altri ambiti di vita e funzionamento: tutto sembra cristallizzato. Le sue interazioni interpersonali sono poche, i sui bisogni emotivo-affettivi appaiono appiattiti oppure passano per la ricerca di una conferma del proprio essere esteticamente piacevole, in forma e forte. Potrebbero celarsi dei temi di narcisismo legati al voler essere riconosciuto in quanto bello e muscoloso in modo particolare.

Il pensiero assume sfumature ossessive e spesso non permette di raggiungere un livello di riflessione adeguato, mentre sul piano comportamentale si rintracciano condotte a connotazione compulsiva di controllo rispetto al peso, ai muscoli, con la ricerca di validazione esterna e rassicurazione rispetto ai propri traguardi in termini di potenza espressa.
Le credenze patogene che ne sono alla base suggeriscono come la perfezione riguardo l’immagine sia fondamentale per essere accettati e riconosciuti in quanto adeguati e non deboli.
Si evidenziano esperienze in cui F. da ragazzo veniva svilito per il suo essere mingherlino e poco mascolino. Nella pratica clinica capita di riscontrare anche quadri di anoressia classica negli uomini e alle volte questo avviene in una fase tardiva del ciclo vitale.

M. ha 58 anni e arriva in consultazione a causa di un disagio psichico e famigliare in cui il fulcro della sintomatologia si focalizza su una condotta alimentare di tipo restrittivo: attualmente pesa 52 kg contro 179 di altezza. Non reputa di avere un problema e si ritiene fiero degli obiettivi raggiunti:

 – “Finalmente non sono più il ciccione di turno, sono stato sempre robusto, sin da ragazzo e ho sofferto per questo, già da giovane mi prendevano in giro e provavo molta vergogna!”.

– “Sto bene così: mi annoiavo, invece adesso lo sport e la sfida con i miei bisogni primitivi mi hanno dato energia, sono addirittura più produttivo!”

– “Alle volte sono di cattivo umore, non sono calmo in famiglia e sto mettendo a rischio il mio matrimonio, ma non riesco a smettere!”

 Studiando il caso di M., si svela sempre di più la motivazione a emanciparsi da un’immagine di sé da sempre vissuta con disagio, a causa di un sovrappeso a cui seguivano commenti di derisione e conseguenti emozioni di tristezza, vergogna, rabbia e inadeguatezza sul piano sociale.
Attualmente si delinea un profilo orientato al controllo, in particolare rivolto al fisico, ma da sempre attivo sul comportamento, sul lavoro e sulle emozioni. Si svelano man mano caratteristiche di rigidità cognitiva, credenze poco adattive, testardaggine e intolleranza verso il punto di vista altrui.
Nella storia di vita emerge un iper-investimento sulla produttività, a discapito della vita relazionale e dello svago. Insomma: gradualmente si compone un quadro “Docp” (Disturbo Ossessivo e Compulsivo della Personalità), in cui i vissuti di rabbia e le difficoltà relazionali hanno connotato il funzionamento e lo sviluppo della personalità di M. in modo persistente.
La sintomatologia relativa al comportamento alimentare si associa a un vissuto di tipo depressivo, a emozioni di noia riferita e alla tendenza a ricercare sensazioni forti.
Queste caratteristiche sembrano attualmente disattivate sul piano professionale e destinate al fisico e alle forme corporee e alla prestazione (alle volte corre per almeno 40 minuti anche tre volte al giorno), determinando una resistenza circa la consapevolezza del disagio e la motivazione al cambiamento.
Appare paradossale come, nonostante la motivazione iniziale fosse o sembrasse quella di non provare vergogna a causa della propria immagine, attualmente, il risultato sia esattamente l’opposto di quello atteso: tutti commentano il dimagrimento, in famiglia tutti si preoccupano, gli amici si interrogano, a lavoro si chiacchiera.
Se lo scopo fosse dunque un altro? Ad esempio ritrovare attenzione e accudimento?
Oppure manifestare un disagio esperito nella propria vita coniugale? O ancora, combattere un momento di vuoto, di demoralizzazione e fallimento?

Per approfondimenti:

Basile, B; et al (2007). I disturbi di Personalità in pazienti con disturbi del comportamento alimentare. Cognitivismo Clinico 4- 1, 3-21.

Bruch, H. (1978).Patologia del comportamento alimentare. Feltrinelli, Milano.

Bruch, H. (2006).La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale. Feltrinelli, Milano.

Dalle Grave, R. (2005).Terapia cognitiva comportamentale dei disturbi dell’alimentazione durante il ricovero, Positive Press, Verona

Dalla Grave, R., Camporese, L., Sartirana, M. (2012). Vincere il perfezionismo clinico, Positive Press, Verona

Fairburn, C. G; Cooper, Z; Shafran, R. (2003), Eating disorders, in “Lancet, 361, pp 4078- 416.

Munno, D; Sterpone S.C; Zunno. G. (2005),    L´anoressia nervosa maschile: Una review. Giornale Italiano di Psicopatologia, 11, 215-224.

 

 

 

Dall’anoressia e dalla bulimia si può guarire

di Maria Pontillo

Il libro “Corpi senza peso”, scritto da un neuropsichiatra e un’ex modella, aiuta a comprendere come accettare e affrontare i disturbi alimentari

Anoressia, bulimia e altri disturbi alimentari colpiscono il 40% degli adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni. Questo il dato diffuso dal prof. Vicari, primario dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Vicari sottolinea come i rischi legati a tali disturbi siano altissimi: secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, i disturbi del comportamento alimentare rappresentano la seconda causa di morte tra gli adolescenti dopo gli incidenti stradali. La situazione è ancor più grave: secondo le ultime stime, l’età di esordio dei disturbi alimentari si è addirittura abbassata, con diagnosi e ricoveri che riguardano anche bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni. Dati allarmanti, quindi, che devono richiamare l’attenzione sulla necessità di sensibilizzare genitori e ragazzi su tali tematiche. Leggi tutto “Dall’anoressia e dalla bulimia si può guarire”

Psicologia, psicoterapia e divulgazione scientifica

di Giuseppe Romano

Il tentativo di divulgare sapere scientifico attraverso i mezzi di comunicazione di massa, facendolo in modo accurato e appropriato da chi si occupa, con competenza e preparazione, di ricerca e di clinica, spesso si scontra con il “bisogno” di fare audience con notizie “forti” a contenuto poco chiaro, ambiguo e poco supportate da evidenze di ricerca, ottenute magari con procedure non controllate e scarsamente valide dal punto di vista metodologico. Purtroppo non è semplice per lo “spettatore” distinguere ciò che è vero, da ciò che è parzialmente vero o ancora da ciò che non è assolutamente vero.

Al link che vi segnalo trovate una riflessione sull’argomento, a cura di Carlo Buonanno (cliccate per leggere l’articolo), pubblicata su ScienzaInRete, uno “strumento nato per promuovere la cultura della scienza, senza scopo di lucro”.
L’articolo introduce il mondo giornalistico ad una iniziativa organizzata da SPC – Scuola di Psicoterapia Cognitiva S.r.l., “Scienza in Rete” e “Istituto C.N.R.”, che si realizzerà il 6 febbraio 2014 a Roma presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR.

Lo scopo della giornata è di presentare, ad un gruppo di giornalisti scientifici invitati dagli organizzatori, lo stato dell’arte riguardo la definizione ed il trattamento dei disturbi alimentari, disturbi che i “media” definiscono emergenti. 

Alla conferenza dal titolo “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione” partecipano, in qualità di relatori, Riccardo Dalle Grave, Giuseppe Romano e Francesca Micaela Serrani; introducono i lavori Rino Falcone, Cristiano Castelfranchi e Francesco Mancini. L’organizzazione è curata da Pietro Greco.

Collegandovi a questo link potrete scaricare il programma