Schizofrenia, la malattia che fa paura

di Alessandra Iannucci

Accrescere la conoscenza per abbattere lo stigma

Fin dagli albori dell’umanità, si è presentato il problema di come spiegare le “diversità” e le “anomalie” nel modo di pensare e agire degli individui. Ogni civiltà ha interpretato la follia in modo differente, a partire dalla propria particolare concezione del mondo e della struttura sociale, economica e politica. Di conseguenza, si sono differenziati, nel corso della storia, i modelli di intervento e le strutture inizialmente deputate alla “custodia” e successivamente alla “cura” della persona affetta da disturbi psichici.

La schizofrenia, a causa della perdita di contatto con la realtà di chi ne soffre, è stato il disturbo che da sempre, nell’immaginario collettivo, si è avvicinato di più alla concezione di “follia” e che tuttora rappresenta la malattia mentale che “fa paura”. Mentre avanza la visione delle malattie mentali in un continuum, non in contrapposizione, con la normalità, la schizofrenia continua a rappresentare una grande etichetta di malattia.

Le caratteristiche proprie della schizofrenia, come ad esempio le allucinazioni, che portano la persona a udire voci non esistenti, possono indurre atteggiamenti stigmatizzanti nella società. La maggior parte delle persone presenta un’immagine stereotipata di chi è affetto da schizofrenia, complici anche i mezzi di comunicazione, e su questa materia sono diffusi molti preconcetti che si aggiungono alle caratteristiche intrinseche della malattia, ostacolandone ulteriormente la qualità di vita.

La World Psychiatric Association e altri esperti hanno stilato un elenco sintetico delle numerose false credenze relative alle persone con schizofrenia: sono violente e pericolose; sono pigre e inaffidabili; non sono in grado di spiegare come si sentono e la propria condizione né di prendere decisioni razionali; sono imprevedibili e peggiorano progressivamente per tutta la vita. Queste credenze sono sbagliate.

Molti non immaginano che la maggior parte delle persone che presenta questa malattia ha difficoltà a sfuggire allo stereotipo della propria condizione. La conseguenza è un aumento del rischio, per chi ne soffre, di sviluppare anche una depressione, sia in reazione ai propri sintomi, che lo spaventano, sia alla paura della “pazzia”, provocando un’angoscia profonda. Diversi studi dimostrano che le persone con schizofrenia manifestano verso loro stessi i medesimi giudizi negativi che vengono espressi dalla popolazione generale. Questo fenomeno ha conseguenze importanti come: vergogna, propensione all’isolamento sociale, difficoltà nel chiedere aiuto e aumento del rischio di recidiva, ossia di ricaduta; secondo alcuni esperti, anche del rischio di suicidio

Lo stigma che si associa a gravi malattie mentali come la schizofrenia colpisce non solo i pazienti, ma anche i loro familiari. Anche se molte famiglie tendono a negare lo stigma, in realtà il sentimento di vergogna può portare a un grande isolamento. Alcune credenze erronee sulle cause della schizofrenia possono inoltre aumentare gli atteggiamenti di colpevolizzazione da parte di genitori o altre figure di riferimento.

Uno dei fattori che può contribuire a ridurre lo stigma e a migliorare l’accettazione da parte della società è la conoscenza della malattia. Le persone più giovani e quelle più istruite sembrano essere maggiormente tolleranti. Anche avere avuto un contatto precedente con un paziente affetto dalla malattia consente un’aumentata consapevolezza della propria condizione o della condizione di una persona vicina.

Le persone affette da schizofrenia che possono contare sul supporto e su atteggiamenti positivi da parte di familiari, amici e colleghi di lavoro, hanno maggiori possibilità di continuare normalmente la propria vita lavorativa e familiare.
Abbandonare i pregiudizi e guardare la schizofrenia per quello che è, cioè una malattia come un’altra, ha il potere di migliorare notevolmente la prognosi. L’informazione resta l’unico mezzo per abbattere lo stigma.

Per approfondimenti

https://www.schizofrenia24x7.it

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I miei pensieri? Non li capisco!

di Caterina Parisio

La compromissione cognitiva nei pazienti schizofrenici è divenuta uno dei domini più studiati ed è alla base di nuovi modelli di trattamento

 Difficoltà nel partecipare, apprendere, ricordare, risolvere problemi: queste gravi compromissioni, presenti nei pazienti schizofrenici, anche quando i sintomi psicotici sono sotto controllo, impediscono spesso di vivere in modo autonomo.

I deficit cognitivi diffusi, che sono stati documentati nei pazienti schizofrenici, riguardano l’attenzione, la memoria e il funzionamento esecutivo, le abilità visuo-spaziali e il linguaggio.

Già nelle prime descrizioni nosografiche della schizofrenia, i deficit cognitivi assumevano una posizione centrale, tanto da portare Kraepelin, nel 1919, a definire il disturbo Dementia precox, che letteralmente significa “declino cognitivo con esordio giovanile”. Eugen Bleuler, qualche anno più tardi, nel descrivere l’incapacità dei pazienti affetti da schizofrenia di controllare i propri pensieri, ipotizzò che il nucleo fondamentale di tale patologia potesse essere attribuito a uno scollegamento dei fili associativi che formano le relazioni tra le idee.

Nel corso degli anni, si sono succedute numerose evidenze riguardo alla presenza di compromissione nell’area cognitiva dei pazienti schizofrenici; tuttavia, per molto tempo è prevalsa la convinzione che tale dominio fosse inaccessibile dal punto di vista terapeutico.

La sottostima di queste funzioni ha contribuito, da una parte, all’inefficacia di molti interventi psicoterapeutici e riabilitativi; dall’altra, allo sviluppo di protocolli innovativi di trattamento ad hoc.

Si è poi avviato un nuovo corso, grazie alle scoperte riguardanti le indagini neuro-morfologiche e alla rinnovata metodologia del testing neuropsicologico: diversi filoni di ricerca hanno sottolineato la pervasività dei deficit cognitivi nella schizofrenia e il loro profondo impatto sull’esito del funzionamento. I deficit cognitivi e le loro conseguenze sono divenuti progressivamente sempre più importanti, tanto da polarizzare l’attenzione dei clinici e divenire un obiettivo fondamentale dei trattamenti. I sintomi produttivi, inoltre, si collegano direttamente al malfunzionamento cognitivo. L’ipotesi, secondo cui le compromissioni nei processi cognitivi di base contribuiscano sostanzialmente a un disturbo formale del pensiero, continua ad avere dei buoni fondamenti scientifici.

Inoltre, i pazienti schizofrenici presentano tra di loro innumerevoli differenze nel grado e nel tipo di compromissione cognitiva; quindi, se da una parte si ha una probante certezza che questi deficit siano presenti, dall’altra questi deficit sono differenti e specifici, sia tra i diversi pazienti che nello stesso soggetto.

Il deficit cognitivo, nella schizofrenia, è sostanzialmente di natura generalizzata, accompagnato da una compromissione in specifici domini della memoria episodica, della velocità di processamento, di fluenza verbale, di attenzione, di funzioni esecutive e memoria di lavoro.

I deficit cognitivi sembrano essere presenti prima della manifestazione conclamata della malattia. Tuttavia, in diversi studi, è stato dimostrato che tale compromissione non è sempre presente. È, quindi, difficoltoso evidenziare una specifica compromissione cognitiva nei pazienti a rischio di sviluppare la malattia, perché i domini cognitivi da esplorare sono estremamente difficili da indagare e presentano risultati talvolta contrastanti.

Per affrontare le compromissioni cognitive nei pazienti schizofrenici, gli interventi psicosociali si sono dimostrati di fondamentale importanza e, già alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, hanno iniziato ad avere una loro dignità e sistematizzazione.

La Cognitive Remediation, trattamento di tipo cognitivo-comportamentale, è rivolta a persone che presentano una compromissione cognitiva in grado di interferire con il funzionamento quotidiano, in modo da sviluppare e rafforzare le abilità cognitive che si mostrano deficitarie.

La CR mira a modificare direttamente le abilità di attenzione, memoria, velocità di processamento e di problem solving, attraverso una serie di esercizi carta matita o computerizzati; stimola le abilità che risultano deficitarie e offre sostegno al fine di ridurre i fallimenti nei diversi compiti della vita quotidiana; aumenta la soddisfazione degli individui nelle scelte, nell’apprendimento in generale, nelle attività lavorative e negli ambienti sociali.

In generale, un livello maggiore di competenza cognitiva favorisce il funzionamento degli individui, soprattutto per il mantenimento dei ruoli sociali legati alla scuola, al lavoro e alle relazioni.


Per approfondimenti:

Antonino Carcione, Giuseppe Nicolò, Michele Procacci (a cura di), Manuale di terapia cognitiva delle psicosi, 2012. Ed. Franco Angeli

Schizofrenia e trattamenti integrati. Il modello di Granholm

di Caterina Parisio

 “Date a un uomo un pesce e lo nutrirete per un giorno. Insegnate a un uomo a pescare e lo nutrirete per tutta la vita”

Tutte le definizioni presenti in letteratura sulla schizofrenia passano da concetti quali allucinazioni, deliri, sintomi prototipici. Provando, invece, a interrogare il senso comune su un tipico paziente affetto da schizofrenia, emerge un aspetto “fuori dall’ordinario”: un viso o un tono di voce vagamente inespressivi, di fronte al quale si avverte una sensazione di disagio. I fattori critici che determinano questo disagio possono essere riassunti nella definizione “deficit di abilità sociali”. Le abilità sociali sono comportamenti interpersonali regolati socialmente; essi includono codici sull’abbigliamento, regole su cosa dire o non dire, direttive sull’espressione delle emozioni, distanza interpersonale. Indipendentemente dal fatto che non abbiano mai appreso le abilità sociali o le abbiano perse, il basso funzionamento sociale è il core symptom di pazienti con schizofrenia.
È ormai evidente che, nonostante i recenti progressi in termini di farmacoterapia, il solo trattamento biologico non è sufficiente per ottenere uno stile adattivo di vita. Curare un paziente affetto da schizofrenia è una sfida per i clinici e per tutti coloro che quotidianamente si confrontano con persone affette da questa grave patologia. È indispensabile, a tal riguardo, conoscere approfonditamente la psicosi e riuscire a cogliere i segni che consentono una diagnosi precoce. Deficit cognitivi, deficit metacognitivi e conseguente mancanza di consapevolezza della propria malattia, basso funzionamento sociale: per ottenere un trattamento efficace, è necessario integrare in giuste dosi la terapia farmacologica e un efficace e personalizzato trattamento psicosociale. Leggi tutto “Schizofrenia e trattamenti integrati. Il modello di Granholm”

Insonnia e schizofrenia: come intervenire

di Fabio Moroni

La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia può rivelarsi molto utile all’interno di un trattamento integrato per le psicosi

I disturbi del sonno sono molto frequenti nei pazienti che soffrono di schizofrenia, tanto che si stima che circa l’80% di questi pazienti soffra anche di insonnia. Sono numerose le ricerche che dimostrano come la mancanza di sonno sia fortemente correlata all’aumento delle allucinazioni, mentre alcuni studi epidemiologici hanno mostrato una forte relazione tra insonnia e paranoia. In particolare, poi, è stato osservato che la presenza di insonnia si accompagna a un intensificarsi dei deliri di persecuzione ed è uno dei primi sintomi che precede le ricadute nei pazienti con schizofrenia. Nonostante l’intervento cognitivo comportamentale per l’Insonnia (CBT-i) si sia dimostrato molto efficace nel trattamento delle insonnie psicofisiologiche, attualmente la sua applicazione a disturbi psichiatrici come la schizofrenia è stata scarsa e sono ancora pochi gli studi di efficacia. Recentemente un gruppo di ricercatori e clinici esperti sia nel trattamento della schizofrenia sia nei disturbi del sonno ha messo a punto un protocollo di intervento sul sonno adattato alle specifiche problematiche dei pazienti con schizofrenia. Il protocollo ha come tecnica principale, derivata dalla CBT-i, quella del “controllo dello stimolo”, che consiste in una serie di prescrizioni che hanno lo scopo di far associare il letto al sonno e di interrompere le associazioni disfunzionali tra letto e le attività di veglia e gli stati emotivi negativi e dolorosi. Leggi tutto “Insonnia e schizofrenia: come intervenire”

Quando la Schizofrenia si manifesta in età evolutiva

di Maria Pontillo e Stefano Vicari

 A partire da una vulnerabilità genetica, fattori come la malnutrizione materna prenatale, un basso quoziente intellettivo, traumi o abuso di cannabis, possono determinare l’esordio del disturbo

 La Schizofrenia è un complesso disturbo del funzionamento cerebrale che si caratterizza per un’ampia variabilità dei sintomi e del corso della malattia. Tra i disturbi psichiatrici, rappresenta la categoria diagnostica con il più alto grado di invalidità sul piano sintomatologico e prognostico.

L’esordio in età evolutiva si caratterizza per elevata frequenza di allucinazioni uditive, estrema gravità della sintomatologia negativa associata, significativa compromissione neuropsicologica e prognosi negativa nel lungo termine. In sostanza, rispetto alla Schizofrenia in età adulta, le condizioni ad esordio al di sotto dei diciotto anni di età rappresentano forme più severe e disabilitanti del disturbo.

Una maggiore comprensione può essere favorita considerando la Schizofrenia come un vero e proprio disturbo del neurosviluppo, derivante dall’interazione tra fattori neurobiologici e fattori di rischio ambientali. Leggi tutto “Quando la Schizofrenia si manifesta in età evolutiva”

La sindrome da delezione del cromosoma 22 e il rischio di schizofrenia

di Maria Pontillo

L’esperienza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma che ha attivato un programma di ricerca medico-scientifico in collaborazione con 22 istituti in America, Australia e Europa

La Sindrome da delezione del cromosoma 22q11.2 (22q11DS) è una condizione dovuta alla delezione di materiale genetico in corrispondenza del braccio lungo (q) del cromosoma 22. Nei bambini che ne soffrono, il quadro clinico risulta caratterizzato da malformazioni cardiache, convulsioni neonatali dovute ad ipocalcemia, ritardo dello sviluppo psicomotorio, cognitivo e/o del linguaggio e, soprattutto, alterazioni del comportamento.
Diverse ricerche, infatti, condotte su bambini e adolescenti in età scolare con 22q11DS hanno evidenziato che questi presentano elevate probabilità di sviluppare disordini psichiatrici e anomalie comportamentali e sono numerosi gli studi che evidenziano una certa quota di rischio di sviluppare schizofrenia. In particolare, le prime manifestazioni cliniche avverrebbero durante il periodo adolescenziale e la prima età adulta: metà degli adolescenti con 22q11DS riporta esperienze psicotiche transitorie, mentre circa il 30% di adulti con la sindrome riceve la diagnosi di schizofrenia in accordo con i criteri del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-V). Tali stime sono da considerarsi, tuttavia, con cautela, soprattutto in relazione al fatto che non sono stati ancora istituiti servizi appositamente dedicati alle prevenzione e all’intervento precoce dei sintomi psicotici in soggetti con 22q11DS.
All’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è stato attivato un programma di ricerca medico-scientifico per lo studio della schizofrenia nella sindrome da delezione del cromosoma 22q11.2 (22q11DS), in collaborazione con il consorzio internazionale Brain Behavior, che comprende circa 22 istituti di ricerca situati nel Sud e nel Nord America, in Australia e in Europa. Leggi tutto “La sindrome da delezione del cromosoma 22 e il rischio di schizofrenia”

Il "gene della follia": un mito da sfatare

di Maurizio Brasini

Nella sua pluri-decennale esperienza di ricerca epidemiologica sulle psicosi, Richard Bentall riferisce di essere partito da uno sforzo di approfondimento della mole di studi sui fattori bio-genetici, per approdare a considerare sempre più l’importanza delle determinanti ambientali, che lui definisce “fattori di rischio sociale“, una svolta che lo stesso Bentall racconta, nel corso della sua relazione al “II Rome Workshop on Experimental Psychopathology” (Roma, 20-21 marzo 2015), essere stata per lui inattesa. Vediamo brevemente come e perché. La schizofrenia (e con essa i distrubi di area psicotica in generale) è stata da sempre considerata una malattia “organica” con una rilevante componente ereditaria. Secondo Bentall questa idea è sopravvissuta fino ai giorni nostri in modo assiomatico, a dispetto di qualunque prova empirica. Bentall sostiene che nonostante i decenni di massicci investimenti nella ricerca delle determinanti genetiche della schizofrenia si siano dimostrati infruttuosi, a mantenere in piedi questa convinzione abbia contribuito una concezione errata eppure consolidata dei meccanismi stessi dell’ereditarietà genetica.

Per visionare i video delle relazioni
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Il principale e più diffuso errore è considerare che l’ereditarietà di una determinata manifestazione patologica sia data dal rapporto tra la variabilità attribuibile ai geni e la variabilità totale. L’errore logico di questa impostazione è semplice: si assume che la somma dei due effetti faccia il totale, e di conseguenza si presume che un alto livello di ereditarietà riduca proporzionalmente le influenze dell’ambiente su un determinato esito patologico. E’ sulla base di questa assunzione che vengono diffuse informazioni secondo le quali la supposta ereditarietà della schizofrenia sarebbe pari all’80%. (schizophreniaresearch.org).

Bentall dimostra con alcuni chiari esempi come questa concezione sia fuorviante. Innanzitutto, un ragionamento simile dovrebbe riguardare le popolazioni e quindi non andrebbe applicato ai singoli individui. Ma, soprattutto, è facilmente dimostrabile che alti livelli di ereditarietà non implicano una riduzione dell’impatto delle cause ambientali (e viceversa). Bentall fa l’esempio di una popolazione ipotetica composta esclusivamente da accaniti fumatori; utilizzando il modello del rapporto gene/ambiente per valutare l’ereditarietà, con la variabilità ambientale ridotta quasi a zero (tutti tabagisti), la prevedibile epidemica diffusione del carcinoma polmonare in questa ipotetica popolazione di fumatori andrebbe attribuita quasi interamente alla genetica anziché all’effetto nocivo del tabacco. Un ulteriore difetto di questo modello esplicativo “additivo” è che non si tiene in considerazione la correlazione tra fattori genetici e ambientali; sempre utilizzando l’esempio del fumo, Bentall propone di immaginare cosa accadrebbe se la tendenza a sviluppare una dipendenza dalla nicotina fosse influenzata geneticamente: a quali cause dovremmo ascrivere lo sviluppo di un tumore al polmone nei fumatori, genetiche o ambientali? Su queste premesse Bentall nota che stime di elevata ereditarietà mascherano rilevanti effetti ambientali quando esiste una correlazione tra variabili genetiche ed ambientati, il che è verosimilmente il caso delle psicosi. Un ultimo errore concettuale che Bentall evidenzia riguarda la nostra idea naif della trasmissione genetica, quella secondo la quale dovrà pur esistere un gene che determina la psicosi così come un gene stabilisce il colore dei fiori dei piselli di mendeliana memoria. Ebbene questa concezione, alla luce di oltre un secolo di straordinari progressi nel campo della genetica, si è rivelata fondamentalmente inesatta, e la vecchia regola “un gene una funzione” è oggigiorno considerata “dogmatica” dai genetisti in primis, anche per caratteristiche molto più puntuali del disagio mentale. Per quanto riguarda i fattori di rischio genetici della schizofrenia, gli studi sul genoma umano sembrano indicare l’esistenza di alcune migliaia (sì, migliaia!) di geni correlati in modo blando seppure statisticamente significativo con la schizofrenia. Prese nel loro insieme, queste migliaia di geni rendono conto di circa il 30% della varianza per la schizofrenia. Migliaia di geni potenzialmente “a rischio” significa che ognuno di noi verosimilmente ne erediterà un “pacchetto” in numero variabile, pescando a caso dal mazzo del patrimonio genetico dei propri genitori; in termini epidemiologici, significa che il rischio genetico di psicosi è distribuito in modo ampio e variabile in tutta la popolazione umana. E’ come dire che siamo tutti dotati di un po’ di geni della follia (chi più e chi meno); dopo di che, saranno soprattutto i nostri percorsi evolutivi a stabilire se questi geni manifesteranno o meno il loro potenziale. E’ appena il caso di accennare qui che, facendo riferimento ad un’ampia mole di ricerche epidemiologiche, tra i fattori che incidono in questi percorsi evolutivi Bentall individua principalmente elementi di svantaggio e di marginalizzazione sociale, nonché le interazioni traumatiche, specie quelle subite in età precoce. Nelle sue considerazioni conclusive, Richard Bentall sfata un ulteriore mito: che considerare la psicosi come una malattia ad origine bio-genetica renda questa condizione più accettabile e più “trattabile” clinicamente. Al contrario, la ricerca dimostra che questa convinzione comporti un atteggiamento più negativo e un maggiore stigma nei confronti dei pazienti psicotici.

Dai fattori sociali di rischio ai sintomi psicotici: l’intervento di Richard Bentall al Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2015

di Elena Bilotta elena bilotta_2

L’intervento di Richard Bentall* per il Rome Workshop on Experimental Psychopathology (20 e 21 Marzo) ha preso in analisi il ruolo di diversi fattori sociali di rischio nell’insorgenza della schizofrenia. La teoria eziologica del Prof. Bentall parte dall’analisi di una serie di ricerche epidemiologiche che suggerirebbero un potenziale rischio per tutta la popolazione di sviluppare sintomi psicotici, perché questi sono identificabili lungo un continuum che parte da un funzionamento cognitivo normale. Esistono però dei fattori sociali e ambientali di rischio (oltre a quelli genetici) che farebbero la differenza nel determinare chi possa poi effettivamente manifestare sintomi psicotici nel corso della sua vita. Primo fra tutti: l’ambiente nel quale si vive. Vivere in ambiente urbano costituisce un pericolo per la salute mentale, non tanto perché le città sono caotiche, sporche e pericolose: ma perché, sottolinea Bentall, nelle grandi città è più evidente la disparità sociale, fonte di stress per l’individuo. In una metropoli è più probabile essere esposti a una convivenza tra persone molto ricche e persone molto povere; questo fenomeno è invece meno evidente nei piccoli centri. Ciò che cambia, inoltre, è l’entità del supporto sociale a disposizione nei due diversi luoghi: una variabile che costituisce un importante fattore di protezione per la salute mentale. Vivere in città espone inoltre le persone a conformarsi a una serie di strutture (sociali, culturali, politiche, economiche) che rendono impossibile il controllo sull’immediato contesto sociale, agendo come fonte di stress/emarginazione per le persone che non fanno parte (o che non sentono di far parte) della comunità. Questi fenomeni sono meno frequenti nei contesti rurali, perché è diversa la loro struttura sociale (Oher et al., 2014). In altre parole, se è vero che si hanno più probabilità di sopravvivenza se si viene colpiti da un attacco di cuore e si vive Roma, anziché in un villaggio in Africa, può essere verosimile che accada l’opposto per la malattia mentale.

Il discorso di Bentall ha trattato anche l’aspetto di specificità di sintomi: sintomi positivi, in particolare la paranoia, sono più facilmente osservabili in contesti urbani piuttosto che rurali. Considerato inoltre che i sintomi di paranoia possono essere una conseguenza di episodi di vittimizzazione, trauma e discriminazione, Bentall sostiene che tali tipi di avvenimenti possono accadere più di frequente in ambienti urbanizzati e altamente popolati. Oltre ai fattori legati all’ambiente di residenza, Bentall si è concentrato sul trauma come ulteriore fattore sociale di rischio per la manifestazione di sintomi psicotici. Maltrattamento (abuso fisico, psicologico e sessuale, neglect), vittimizzazione (bullismo), esperienze di perdita o separazione da un genitore, stile di comunicazione parentale vago, frammentato, o contraddittorio, sono tutti fattori di rischio per lo sviluppo di una psicosi (de Sousa et al., 2013). Ma quanto è forte l’effetto del trauma sullo sviluppo della schizofrenia? Secondo Bentall, è paragonabile al rischio di contrarre un tumore nei fumatori abituali. Secondo i risultati di una recente metanalisi (Varese et al., 2012) circa 150.000 persone non svilupperebbero il disturbo se si avesse la possibilità di eliminare tali fattori di rischio. Ritornando al discorso della specificità, anche in questo caso è possibile identificare un’associazione tra trauma sessuale e sintomi allucinatori, mentre esiste una forte correlazione tra sintomi paranoidei e neglect. L’intervento del Prof. Bentall si è concluso con due importanti messaggi, diretti alla comunità scientifica e alle Istituzioni: aprirsi alla possibilità di un trattamento della schizofrenia focalizzato su trauma e teoria dell’attaccamento, e fornire maggior peso al ruolo dell’insicurezza lavorativa, dell’isolamento sociale, della povertà, della vita in contesto urbano nella spiegazione dell’insorgenza della schizofrenia.

* Richard Bentall è Docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Liverpool, UK. I suoi lavori sulla manifestazione della schizofrenia e sulla spiegazione dei sintomi allucinatori e paranoidei sono ampiamente conosciuti e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Suo l’intervento al RWEP2015 dal titolo “From social risk factors to psychotic symptoms”.

Bibliografia citata

de Sousa, P., Varese, F., Sellwood, W., & Bentall, R. P. (2013). Parental communication and psychosis: a meta-analysis. Schizophrenia bulletin, 40 (4): 756-768.

Oher, F. J., Demjaha, A., Jackson, D., Morgan, C., Dazzan, P., Morgan, K., Bentall, R.P., & Kirkbride, J. B. (2014). The effect of the environment on symptom dimensions in the first episode of psychosis: a multilevel study. Psychological medicine, 44(11), 2419-2430.

Varese, F., Smeets, F., Drukker, M., Lieverse, R., Lataster, T., Viechtbauer, W., … & Bentall, R. P. (2012). Childhood adversities increase the risk of psychosis: a meta-analysis of patient-control, prospective-and cross-sectional cohort studies. Schizophrenia bulletin, 38(4), 661-671).