I bambini hanno il diritto di essere tristi?

di Anita Parena

È facile fare affermazioni come “tutte le emozioni sono buone” o “tutte le emozioni, anche quelle negative, aiutano a crescere”. In questo momento in cui nelle sale c’è Inside out la legittimità delle emozioni negative è particolarmente in auge, dal momento che il film in modo molto intelligente ed efficace mette in luce i vari modi in cui anche emozioni considerate negative come la tristezza sono da vivere e da esperire in piena consapevolezza perché funzionali al nostro equilibrio. Tradurre questo in pratiche Il-linguaggio-del-cuore_590-0762-3educative, però, è meno facile. Nel libro “Il linguaggio del cuore” di Claudia Perdighe, ci sono esempi presi dalla vita quotidiana di come i genitori “involontariamente”, in mille modi diversi, insegnano a inibire o reprimere le emozioni; molto spesso questo accade perché spaventati sia dalle emozioni dei loro bambini, sia dai possibili effetti su loro stessi. Il primo e forse più chiaro esempio è il contrasto del pianto del bambino, il “non piangere” che per mesi o anni guida tante interazioni genitore-figlio; interrompere il pianto del bambino, infilargli un ciuccio in bocca, cercare mille strategie per farlo smettere, è il primo modo in cui diciamo al bambino “non esprimere ciò che senti”. Il pianto  prolungato e apparentemente senza una causa a cui è possibile trovare una soluzione immediata come fame, freddo o sonno, attiva sentimenti di preoccupazione, disagio e timori sulle proprie capacità di genitore…!

Se invece nel “calmare il bambino” ci ricordassimo che “tutti i bambini piangono e non è un problema che necessariamente richiede una soluzione” anche il ruolo dei neo-genitori sarebbe più semplice.

Se il bambino smette di piangere io mi sento meglio, vero! Se però ogni volta che piange rispondo con “non piangere”, rischio inconsapevolmente di insegnargli che deve sempre essere di buon umore o che non deve mostrare il suo disagio.

Il diritto dei bambini di essere tristi, titolo scelto dall’autrice originariamente, sarebbe il giusto titolo del libro, il cui tema sono appunto le emozioni, piacevoli e spiacevoli: quelle dei bambini e quelle dei genitori.

Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale

di Valentina Silvestre e Caterina Parisio

In un clima di condivisione e appartenenza, per un progetto comune di formazione e di ricerca, l’AIDAS (Associazione Italiana Disturbi dell’Ansia Sociale) e la SITCC (Società Italia Terapia Cognitivo-Comportamentale) hanno organizzato una giornata di studio che si è tenuta sabato 3 Ottobre a Napoli, giornata in cui si è parlato di “non condivisione” e “non appartenenza”. logo-lucid3

Nel Convegno su “Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale” è stato fatto il punto sullo stato dell’arte rispetto agli aspetti psicopatologici e alle modalità di trattamento dell’ansia sociale. Disturbo che rappresenta una realtà clinica di sempre maggiore impatto nella pratica quotidiana di psicoterapeuti e psichiatri e che impone un costante aggiornamento per poter fornire le migliori risposte e saper applicare efficaci protocolli di trattamento. Leggi tutto “Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale”

Overgeneral memory e disturbo depressivo: perché?

di Rosina Misasi, Università Guglielmo Marconi, Roma[1]

Il fenomeno overgeneral memory (OGM), caratteristica costante dei pazienti con diagnosi di depressione maggiore (Williams 1996), è un ipergeneralizzazione dei ricordi autobiografici che riflette la difficoltà a recuperare una memoria specifica. Ma perché ciò accade nei pazienti con MDD?

La conoscenza di base della memoria autobiografica (autobiographical memory knowledge base) è composta da conoscenze relative al Sé organizzate in un magazzino di memorie autobiografiche secondo tre livelli di specificità (Conway e Pleydell-Pearce 2000). Leggi tutto “Overgeneral memory e disturbo depressivo: perché?”

Le luci della città: una pratica guida alla depressione per autodidatti…

a cura della Redazione

Pubblichiamo oggi la testimonianza di una giovane donna affetta da crisi depressive.

In questo articolo, pubblicato sul sito softrevolutionzine.org, una rivista online per ragazze, si offrono degli spunti per comprendere l’esperienza emotiva in atto e per identificare gli eventuali segnali che precedono, e spesso anticipano, un episodio depressivo.

“La mia terza crisi depressiva fu la prima ad essere diagnosticata. Avvenne in un pomeriggio di settembre, nello studio del dottor M.. Fuori c’era un sole che mi sembrava, come minimo, indiscreto. Prima di rivolgermi ad un professionista avevo fatto passare tempo, abbastanza da essere sicura di averne davvero, davvero bisogno. Quando mi ritrovai a piangere senza motivo apparente sulla metro A, seduta tra due estranei, capii che era la mia ultima occasione di provare a fare qualcosa prima di ricaderci. Il motivo per cui è così difficile parlare della malattia mentale è …” (continua a leggere)

Il disturbo di dismorfismo corporeo

di Giordana Ercolani

Da affezionata lettrice delle avventure o disavventure (questo, come risaputo, dipende dai B di ognuno) del Dott. Carlo Biagioli, è stato un piacere per me ritrovarlo proprio nell’introduzione del libro che mi apprestavo a leggere; sì, perché proprio come lui, e cioè da giovane specializzanda, mi stavo apprestando a fare il giro tra i “corridoi” di un disturbo, quello da Dismorfismo Corporeo, molto complesso che si sovrappone spesso ad altra psicopatologia e che ha articolate implicazioni cognitive e sensoriali che lo rendono allo stesso tempo difficile ed affascinante da trattare; ma grazie al prezioso, minuzioso e pragmatico contributo degli autori, A. Scarinci e R. Lorenzini, tali corridoi si faranno meno “lunghi e tenebrosi”.

COP_Disturbo-di-dismorfismo-corporeo_590-0827-9Da pochi giorni in libreria, il manuale “Disturbo di Dismorfismo Corporeo – Diagnosi, assessment e trattamento”, edito da Erickson, risponde puntualmente alle esigenze del terapeuta che desidera conoscere il disturbo e vuole impostare un trattamento CBT.

L’opera è organizzata in due sezioni. Nella prima vi è una maggiore attenzione agli aspetti teorici legati alla ricerca e alla letteratura scientifica più recente. Nello specifico si affronta il periodo dell’adolescenza, momento di grandi cambiamenti nella mente e nel corpo, cambiamenti rapidi, a volte precoci a volte tardivi, insopportabili, in base ai quali ci si valuta e si è valutati; nei casi peggiori tali aspetti diventano oggetto di scherno da parte degli altri, se non peggio di critica e di rifiuto, tutte implicazioni, queste, che possono costituire condizioni di sensibilità allo sviluppo ed al mantenimento del BDD (body dysmorphic disorder) e non solo.

Si prosegue poi, nei capitoli successivi, all’esame di tutte le informazioni sulla formulazione del caso: qual è la storia di vita del paziente? Quali eventi hanno contribuito a favorire il suo scompenso? Cosa ha contribuito, nel tempo, a mantenere il suo disturbo? Quali credenze intrattiene su se stesso, in particolare sul proprio corpo, e sugli altri? E soprattutto, quali sono gli scopi in gioco che sta perseguendo? In che modo li sente minacciati? E come il BDD si struttura difronte a tale minaccia?

Gli Autori, in seguito, evidenziano come i pazienti con Dismorfismo Corporeo hanno una bassa qualità di vita, caratterizzata in modo particolare dall’esistenza di relazioni sociali povere e rendono più chiari diversi aspetti fenomenologici del disturbo, che vanno dalla presenza nel quadro sintomatico di comportamenti caratterizzati da alta aggressività verso se stessi e verso gli altri, all’uso e all’abuso di alcol e di sostanze, alla realizzazione di interventi, più o meno invasivi, mirati alla modifica del proprio corpo fino ad arrivare ad alti tassi di ideazione suicidaria ed al suicidio vero e proprio. Riguardo alla diagnosi, infine, rimarcano le difficoltà che si incontrano per l’esistenza di diversi disturbi in comorbilità che, con modalità differenti, si sovrappongono, si fondono alcune volte, e si manifestano con caratteristiche comuni al DCA, al DOC, alla Fobia Sociale. Citando gli Autori, il disturbo è “situato al crocevia nosografico tra i disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, le ossessioni e il delirio”.

Tornando a me, che mi addentro in corridoi tenebrosi, conclusa la lettura della prima parte del volume, mi accorgo della luce assai preziosa che mi è stata fornita per esaminare con “occhio clinico” la patologia a tutto tondo. Adesso, la seconda parte mi orienterà nell’impostazione dell’intervento terapeutico, andando oltre la speculazione teorica.

Inizialmente gli Autori forniscono alcuni specifici strumenti per la valutazione, corredati anche delle indicazioni per lo scoring; quindi passano ad offrire al lettore una serie di strategie e tecniche terapeutiche, non manca un accenno alle nuove tecnologie in supporto alla pratica clinica e conducono per mano il lettore nel labirinto contorto dell’intervento sul disturbo. Ed è di notevole importanza e utilità che le indicazioni terapeutiche fornite, vengono corredate di suggerimenti pratici e di schede da utilizzare nel trattamento, permettendo così, anche al terapeuta più inesperto (e qui i riferimenti personali non sono affatto casuali), di sentirsi accompagnato in un territorio (il BDD) non ancora esplorato. In appendice al capitolo sul trattamento, preziose indicazioni qualora ci si trovi davanti un caso più grave, magari con convinzioni deliranti e scarso, o peggio assente, insight. Il testo si chiude con la descrizione di alcuni casi clinici, un indispensabile aiuto per comprendere ancora meglio ciò che è stato esposto, fino a quel punto, a livello teorico/pratico. Il riscontro nella realtà clinica e nel disagio esistenziale traspare dal racconto delle vite dei quattro pazienti.

Non mi resta che augurare buona lettura o, meglio, buona passeggiata a tutti nei corridoi del BDD, con l’auspicio che sempre di più clinici di ampia fama ed esperienza come gli Autori di questo manuale ci diano strumenti in grado di illuminare i “lunghi e tenebrosi corridoi” che giovani cognitivisti si apprestano a percorrere.

L'acquisto compulsivo

di Francesco Baccetti

Il disturbo da accumulo, nella prima descrizione come entità nosografica autonoma, viene descritto da Frost e Hartl (1996) come la tendenza ad acquisire una quantità eccessiva di oggetti e l’incapacità di liberarsene, con conseguente disordine che impedisce il consueto uso degli spazi della casa e lo svolgimento delle funzioni per le quali tali spazi sono adibiti e ne mettono in luce tre aspetti centrali dell’accumulo, che sono in qualche modo le tre facce del disturbo: la tendenza ad acquisire e accumulare un numero eccessivo di oggetti, il disordine derivante dalla difficoltà a organizzare spazi e oggetti, la difficoltà causata dall’accumulo e dalla difficoltà a separarsi dagli oggetti. disturbo-da-accumulo

Una grande parte degli accumulatori presenta un comportamento di acquisto eccessivo, compulsivo: la maggior parte di loro compra un grande numero di oggetti “just in case”, ovvero oggetti che non sono necessari, ma che sono percepiti come potenzialmente utili, del genere “potrebbero servire” e “per ogni eventualità è bene averli” (Frost e Gross, 1993).

In questa avventura ho deciso di occuparmi proprio di questo, dello Shopping Compulsivo, caldamente suggeritomi dalla mia collega Chiara Lignola, dal momento che per alcuni aspetti, questo argomento mi rappresenta. Nella mia quotidianità, nel tempo libero, con amici e colleghi (vero Chiara?), spesso mi ritrovo a fare shopping e a parlare in genere di acquisti, insomma diciamo che non sono così insensibile alle strategie di marketing.

Affrontando questo viaggio mi sono sorpreso di come questo argomento, così legato al disturbo dell’accumulo e per alcuni autori in parte sovrapponibile, sia poco trattato e considerato, tanto da non avere una sua identità in termini diagnostici, visti anche i costi in termini non solo economici ma anche emotivi e sociali che tale problematica comporta. Allo stesso tempo mi sono reso conto di come, le determinanti psichiche sottostanti questo disturbo, siano sfruttate e amplificate dai sistemi di marketing per incentivare in ognuno di noi acquisti d’impulso, risultanti quindi non da valutazioni di tipo funzionale ma fortemente emotive.

Il "gene della follia": un mito da sfatare

di Maurizio Brasini

Nella sua pluri-decennale esperienza di ricerca epidemiologica sulle psicosi, Richard Bentall riferisce di essere partito da uno sforzo di approfondimento della mole di studi sui fattori bio-genetici, per approdare a considerare sempre più l’importanza delle determinanti ambientali, che lui definisce “fattori di rischio sociale“, una svolta che lo stesso Bentall racconta, nel corso della sua relazione al “II Rome Workshop on Experimental Psychopathology” (Roma, 20-21 marzo 2015), essere stata per lui inattesa. Vediamo brevemente come e perché. La schizofrenia (e con essa i distrubi di area psicotica in generale) è stata da sempre considerata una malattia “organica” con una rilevante componente ereditaria. Secondo Bentall questa idea è sopravvissuta fino ai giorni nostri in modo assiomatico, a dispetto di qualunque prova empirica. Bentall sostiene che nonostante i decenni di massicci investimenti nella ricerca delle determinanti genetiche della schizofrenia si siano dimostrati infruttuosi, a mantenere in piedi questa convinzione abbia contribuito una concezione errata eppure consolidata dei meccanismi stessi dell’ereditarietà genetica.

Per visionare i video delle relazioni
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Il principale e più diffuso errore è considerare che l’ereditarietà di una determinata manifestazione patologica sia data dal rapporto tra la variabilità attribuibile ai geni e la variabilità totale. L’errore logico di questa impostazione è semplice: si assume che la somma dei due effetti faccia il totale, e di conseguenza si presume che un alto livello di ereditarietà riduca proporzionalmente le influenze dell’ambiente su un determinato esito patologico. E’ sulla base di questa assunzione che vengono diffuse informazioni secondo le quali la supposta ereditarietà della schizofrenia sarebbe pari all’80%. (schizophreniaresearch.org).

Bentall dimostra con alcuni chiari esempi come questa concezione sia fuorviante. Innanzitutto, un ragionamento simile dovrebbe riguardare le popolazioni e quindi non andrebbe applicato ai singoli individui. Ma, soprattutto, è facilmente dimostrabile che alti livelli di ereditarietà non implicano una riduzione dell’impatto delle cause ambientali (e viceversa). Bentall fa l’esempio di una popolazione ipotetica composta esclusivamente da accaniti fumatori; utilizzando il modello del rapporto gene/ambiente per valutare l’ereditarietà, con la variabilità ambientale ridotta quasi a zero (tutti tabagisti), la prevedibile epidemica diffusione del carcinoma polmonare in questa ipotetica popolazione di fumatori andrebbe attribuita quasi interamente alla genetica anziché all’effetto nocivo del tabacco. Un ulteriore difetto di questo modello esplicativo “additivo” è che non si tiene in considerazione la correlazione tra fattori genetici e ambientali; sempre utilizzando l’esempio del fumo, Bentall propone di immaginare cosa accadrebbe se la tendenza a sviluppare una dipendenza dalla nicotina fosse influenzata geneticamente: a quali cause dovremmo ascrivere lo sviluppo di un tumore al polmone nei fumatori, genetiche o ambientali? Su queste premesse Bentall nota che stime di elevata ereditarietà mascherano rilevanti effetti ambientali quando esiste una correlazione tra variabili genetiche ed ambientati, il che è verosimilmente il caso delle psicosi. Un ultimo errore concettuale che Bentall evidenzia riguarda la nostra idea naif della trasmissione genetica, quella secondo la quale dovrà pur esistere un gene che determina la psicosi così come un gene stabilisce il colore dei fiori dei piselli di mendeliana memoria. Ebbene questa concezione, alla luce di oltre un secolo di straordinari progressi nel campo della genetica, si è rivelata fondamentalmente inesatta, e la vecchia regola “un gene una funzione” è oggigiorno considerata “dogmatica” dai genetisti in primis, anche per caratteristiche molto più puntuali del disagio mentale. Per quanto riguarda i fattori di rischio genetici della schizofrenia, gli studi sul genoma umano sembrano indicare l’esistenza di alcune migliaia (sì, migliaia!) di geni correlati in modo blando seppure statisticamente significativo con la schizofrenia. Prese nel loro insieme, queste migliaia di geni rendono conto di circa il 30% della varianza per la schizofrenia. Migliaia di geni potenzialmente “a rischio” significa che ognuno di noi verosimilmente ne erediterà un “pacchetto” in numero variabile, pescando a caso dal mazzo del patrimonio genetico dei propri genitori; in termini epidemiologici, significa che il rischio genetico di psicosi è distribuito in modo ampio e variabile in tutta la popolazione umana. E’ come dire che siamo tutti dotati di un po’ di geni della follia (chi più e chi meno); dopo di che, saranno soprattutto i nostri percorsi evolutivi a stabilire se questi geni manifesteranno o meno il loro potenziale. E’ appena il caso di accennare qui che, facendo riferimento ad un’ampia mole di ricerche epidemiologiche, tra i fattori che incidono in questi percorsi evolutivi Bentall individua principalmente elementi di svantaggio e di marginalizzazione sociale, nonché le interazioni traumatiche, specie quelle subite in età precoce. Nelle sue considerazioni conclusive, Richard Bentall sfata un ulteriore mito: che considerare la psicosi come una malattia ad origine bio-genetica renda questa condizione più accettabile e più “trattabile” clinicamente. Al contrario, la ricerca dimostra che questa convinzione comporti un atteggiamento più negativo e un maggiore stigma nei confronti dei pazienti psicotici.

L’importanza di un training sulle emozioni espresse con alta intensità e direzione dello sguardo diretto per bambini con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico

di Alessandra Micheloni alessandra micheloni_blog

 

Tra le caratteristiche diagnostiche del Disturbo dello Spettro Autistico si evidenziano una scarsa capacità nel ricercare una piacevole e spontanea condivisione di emozioni sia positive che negative, la condivisione degli interessi con altre persone ed una difficoltà nell’interagire con reciprocità emotiva. Già Kanner (1943) enfatizzò la presenza di difficoltà emotive, descrivendo questi pazienti come indifferenti e non interessati all’altro, egocentrici, emotivamente freddi, distanti e ritirati. Tutte caratteristiche, che negli anni seguenti, sono stati inclusi in un più ampio e centrale nucleo, quello sociale. L’interesse, particolarmente rivolto al riconoscimento facciale, ha dato vita a numerose ricerche, alcune recenti.

La ricerca che ha stimolato il mio interesse e che descrivo in questo post, è quella di Tell et al. (2014), in cui è stata indagata la direzione dello sguardo e gli effetti dell’intensità dell’espressione emotiva come componenti nel riconoscimento dell’emozione sia in bambini con Diagnosi di Autismo che in quelli con uno sviluppo tipico. Tra gli aspetti che caratterizzato la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni, ci sono lo sguardo e la sua direzione, l’espressione facciale, che suggeriscono il motivo e la base del deficit preso in esame in questo articolo e la conseguente difficoltà nell’interazione sociale per i bambini con Autismo. La capacità di percepire nonché comprendere un’emozione, potrebbe migliorare nel momento in cui la condivisione avvenga attraverso una combinazione tra direzione dello sguardo e l’intento di comunicare la propria espressione emotiva. Da queste ipotesi chiamate dai ricercatori “Shared signal hypotesis” si è sviluppata l’idea secondo cui emozioni come la felicità e la rabbia siano maggiormente identificabili quando si orienta lo sguardo in maniera più diretta e dunque più rapidamente “intercettata” dall’altro, che sia un bambino o adulto con Diagnosi di Autismo o un bambino con uno sviluppo neuro-tipico.

Diversamente accade con le emozioni di tristezza e paura, più rapidamente identificate da adulti neuro-tipici rispetto a quelli con Autismo. Inoltre si evidenzia che, adulti con sviluppo tipico, che osservano espressioni facciali di rabbia con lo sguardo diretto, vengono considerate come “più arrabbiati”. Per bambini o adulti con Diagnosi di Autismo è più difficile, invece, “cogliere” l’emozione, se non vi è uno sguardo diretto, rispetto a coloro che presentano uno sviluppo neuro-tipico. Sono stati considerati altri aspetti che possano determinare o meno un riconoscimento adeguato delle emozioni da parte dei bambini con Autismo (Akechi et al, 2009): potrebbero, infatti, non integrare spontaneamente la direzione dello sguardo con l’intento comunicativo, in particolare nella connessione con l’espressione emotiva o all’interno di specifici contesti sociali. Dagli studi effettuati, emerge che una differenza significativa, nel riconoscimento delle emozioni, tra bambini con Autismo e bambini con uno sviluppo tipico, sia dovuta dal livello di intensità con cui vengono presentate: è più facile riconoscere le emozioni se rappresentate con un’intensità maggiore o più marcate rispetto a quelle rappresentate con minor intensità. Tuttavia i bambini con sviluppo tipico riescono con più facilità nel compito di riconoscimento delle emozioni al variare dell’intensità, anche se sono più accurati a un’intensità maggiore (per esempio 50%) rispetto ad una inferiore (25%).

Wallace e colleghi, dalle loro ricerche dimostrano che adolescenti con Disturbo dello Spettro Autistico hanno bisogno di un’espressione facciale delle emozioni più intensa affinché possano riconoscere in maniera più accurata le emozioni proposte. La ricerca di Tell et al, ha proprio lo scopo di esaminare gli effetti della direzione dello sguardo e dell’intensità dell’espressione emotiva nella capacità di riconoscimento dell’emozione mettendo a confronto due gruppi di bambini (22 per ogni gruppo) con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico, con un’età tra gli 8 e i 12 anni. Ai gruppi di bambini, messi a confronto, sono state mostrate delle foto che raffigurano volti con l’espressione delle emozioni di felicità, rabbia, tristezza e paura, includendo anche una con un’espressione neutrale. Tutte le espressioni emotive, sono state create al pc, con lo sguardo diretto o distolto dal 50% al 100% di livello di intensità. Il test a cui sono stati sottoposti i soggetti della ricerca è stato effettuato individualmente in una classe, silenziosa e l’esperimento consisteva in una sessione di 20 minuti. Sono state mostrate delle foto (volti di attori, 6 maschi e 6 femmine), per ogni emozione l’intensità dell’espressione variava da 0% neutrale, al 50% e 100%), suddivise in due tipi di “volto stimolo”, con lo sguardo diretto e con lo sguardo distolto (sguardo verso destra o sinistra), per un totale di 12 foto per ogni emozione, inclusa quella neutrale. Dai dati emersi bambini con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico non differiscono tra loro nell’abilità di riconoscere correttamente l’espressione delle emozioni di felicità e rabbia, raffigurate con un’intensità del 100% e del 50% con lo sguardo diretto o con lo sguardo distolto. Di contro, è emerso il dato significativo che, i bambini con Autismo hanno una minor capacità di riconoscere, rispetto ai bambini con sviluppo tipico, l’emozione di paura per ogni livello di intensità (50% e 100%) e con sguardo diretto o distolto. Anche per l’emozione di tristezza, è emersa una maggior abilità, nei bambini con sviluppo tipico rispetto a quelli con Autismo, nel riconoscimento della stessa, se proposta con un’immagine con intensità al 100% e con sguardo diretto. Per i volti neutrali, è emersa una maggior tendenza dei bambini con Autismo ad etichettarli con un’emozione negativa.

I dati di questa ricerca ci lasciano con il quesito sul motivo per cui alcune tipi di emozioni, come la felicità e la rabbia, vengano captate e riconosciute maggiormente dai bambini con Autismo rispetto a quelle di tristezza o paura, nonostante siano state proposte variando livello di intensità e con differente direzione dello sguardo. E’ stata ipotizzata, una differente attività neuronale, ossia una minor attivazione della parte sinistra dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale sinistra del cervello negli adulti con DSA rispetto a quelli neuro-tipici. Una differenza nel riconoscimento della paura, sta nel fatto che quest’emozione venga comunicata principalmente con gli occhi e ciò potrebbe essere legato alla minor attenzione che gli individui con Autismo prestano a questa regione del volto.

Ciò che ci suggerisce questa ricerca, è che gli adulti che fanno parte della vita dei bambini con Autismo o comunque ogni figura professionale coinvolta nel trattamento degli stessi, debbano lavorare in modo più incisivo ed importante, anche tramite la costruzione di storie sociali, sull’apprendimento delle emozioni negative di paura e tristezza. Considerando che sia la direzione dello sguardo che l’intensità dell’emozione che viene espressa modula la percezione dell’emozione in tutti i bambini, si potrebbe intensificare un trattamento precoce sulle emozioni nei vari contesti sociali (scuola, casa ecc.), anche tramite immagini come quelle utilizzate nella ricerca, costituendo una base per poi lavorare allo stesso tempo sulla comunicazione tra pari, adulti significativi e terapisti permettendo di enfatizzare in vivo con più facilità l’emozione e soprattutto favorendo l’attenzione dei bambini con Autismo sul proprio sguardo.

Riferimenti Bibliografici

TELL, D., DAVIDSON, D. AND CAMRAS, L.A., Recognition of Emotion from Facial Expressions with Direct or Averted Eye Gaze and Varying Expression Intensities in Children with Autism Disorder and Typically Developing Children, Hindawi Publishing Corporation Autism Reasearch and Treatment, Vol 2014, Article ID 816137, p.11.

Cosa causa il disturbo da accumulo?

di Annalisa Bello

Erroneamente accostato al DOC, il Disturbo D’Accumulo (DA) sembra porsi come una singola entità diagnostica anche da un punto vista neurobiologico, come recentemente osservato da Mataix-Cols e coll., (2014).

A partire dalla prima evidenza di neuroimaging (Saxena e coll., 2004), la letteratura inizia a rivolgere particolare interesse alla neurobiologia del DA, dischiudendo la comprensione dell’affascinante fenomenologia comportamentale di tipo accumulatorio, che implicherebbe il coinvolgimento di strutture frontali nonché temporali. In particolare, un compromesso funzionamento a livello della corteccia orbitofrontale e della corteccia anteriore del cingolo unitamente ad un’ipofunzionalità documentabile a livello dei giri superiore e mediale – per ciò che concerne il coinvolgimento temporale – sottendono al la tipica tendenza all’accumulo che, in chiave neurospicologica, si rifletterebbe nella compromessa abilità di decision making.

La chiarezza delle evidenze funzionali, irrobustita dalle indirette confeme, che le stesse ricevono dalla letteratura di studi animali e lesionali, parrebbe quasi porsi come un’importante svolta nella risoluzione dell’insoluto interrogativo circa la natura della relazione causale tra aspetto neurobiologico e comportamentale nel DA. Ma considerando il notevole limite delle evidenze funzionali in merito come scarsamente generalizzabili (trattasi, infatti, di studi che hanno indagato il DA in soggetti con tendenza accumulatoria secondaria al DOC) risuona alquanto consona e condivisibile la necessità di ulteriori approfondimenti ed indagini, come suggerito da Randy Frost, uno degli esperti mondiali su questo tema (Frost e coll. 2014). Rimane, pertanto, ancora aperta l’avvincente questione circa il determinismo causale nel DA : “ è la predisposizione neurobiologica che porta allo sviluppo del DA?” oppure “la tendenza all’accumulo è cognitivamente ed emozionalmente legata alle determinanti psicologiche, il cui riflesso risulterebbe in un anomalo funzionamento cerebrale?”. Seppur non sciogliendo l’intricato enigma scientifico, il mio contributo alla new entry in casa editrice Raffaello Cortina ossia il “Il disturbo d’accumulo” a cura di Claudia Perdighe e Francesco Mancini è stato mosso dall’interesse verso l’ammaliante relationship tra il neurobiologico e la fenomenologia comportamentale nella psicopatologia. Insieme ai colleghi Iolanda Pisotta, Niccolo Varruccio e Brunetto De Sanctis -insieme ai quali si è dato vita a due interessanti capitoli – ho mosso i miei primi passi verso questa insolita commistione di ruoli “autore-studente” che, mai come in questo caso, non ha avuto controindicazioni alcune, anzi (leggere per credere!). Aggiungici, poi, una classe di specializzandi all’ultimo anno, bramosi di clinica in una scuola piena di slancio ed apprezzabili iniziative, in perenne eruzione di stimoli e ammirevole attivismo e il risultato e a dir poco successful (ancora una volta, leggere per credere!).