Essere genitori di un bambino autistico

di Federica Codini

Strategie di Coping e sviluppi futuri

L’esperienza della disabilità è un terremoto emotivo che sconvolge l’esistenza di una persona che si vede costretta a riscrivere i piani della propria vita. Il sogno di avere quel figlio perfetto svanisce nel nulla e da questo momento a quello di accettazione della disabilità intercorre un tempo variabile per ciascuno: nel mezzo troviamo senso di colpa, vergogna, rabbia, impotenza, depressione che si alternano tra loro e, come in una danza, si danno il cambio con un nuovo slancio propositivo a ogni stadio evolutivo del figlio.

Il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) è un disturbo del neurosviluppo a insorgenza precoce, caratterizzato da difficoltà nell’interazione e nella comunicazione sociale e dalla presenza di interessi ristretti e comportamenti ripetitivi e stereotipati.

I caregiver, coloro che se ne prendono cura, possono trovarsi a dover fronteggiare richieste di natura pratica, psicologica e sociale.

Le sfide che i caregiver di persone con ASD affrontano più frequentemente sono: stress, impatti negativi sulle relazioni, difficoltà finanziarie, problemi di salute fisica e mentale. Inoltre, questi genitori riferiscono una minore soddisfazione matrimoniale e hanno circa il doppio delle probabilità di divorziare rispetto ai genitori i cui figli non hanno ASD o che hanno altre disabilità. Il 60% delle madri di un bambino affetto da ASD non ha potuto proseguire la propria carriera professionale, mentre quelle rimaste occupate hanno riferito di orari di lavoro ridotti e perdita di guadagno. Con il termine “stress” si intende l’esito di un processo di valutazione ed emerge nel momento in cui le richieste esterne (ambiente) e/o interne (della persona) mettono a dura prova le risorse dell’individuo. Per far fronte allo stress percepito, è possibile prendere in considerazione le varie strategie di coping e cioè le modalità con cui le persone affrontano le diverse situazioni.

Una revisione della letteratura sulle strategie di coping ha messo in luce come la distrazione, la ristrutturazione cognitiva, la minimizzazione e l’accettazione possano aiutare un individuo ad adattarsi a un’esperienza stressante.

È stato osservato come in mancanza di risorse esterne, al fine di far fronte alle varie sfide quotidiane, i caregiver facciano affidamento alle risorse interne. Tale considerazione ci spinge a fare luce sul come implementare strategie di coping utili a incrementare risorse interne dei caregiver. Una delle strategie di coping prese in considerazione dalla psicologa britannica Deborah Lancastle è il coping di rivalutazione cognitiva, che si basa sulla capacità di rivalutare una situazione in un’ottica più positiva e/o neutra. Dato che le situazioni stressanti causano una maggiore reattività del sistema nervoso autonomo e reazioni fisiche spiacevoli, come battito cardiaco accelerato e affaticamento, è plausibile ipotizzare che le emozioni positive possano ridurre l’impatto fisiologico del sentirsi tristi o arrabbiati. Lo studio rileva risultati in linea con quelli della psicologa statunitense Susan Folkman, in cui si osserva come il coping di rivalutazione cognitiva sia correlato a una maggiore resilienza, a emozioni più positive e a un minor senso di carico di cura, alimentando quindi sempre più l’attenzione allo sviluppo di un programma che veda come centrale un intervento nel supportare i caregiver nell’uso efficace di tale strategia di coping.

Per approfondimenti

Deborah Lancastle ID1 *, Joanna Hill1 , Susan Faulkner1 , Alecia L. Cousins2. The stress can be unbearable, but the good times are like finding gold”: A phase one modelling survey to inform the development of a self-help positive reappraisal coping intervention for caregivers of those with autism spectrum disorder. PLoS uno. 2022; 17(3)

Folkman S. Stati psicologici positivi e gestione di forti stress. Soc Sci Med . 1997; 45 ( 8 ):1207–21. doi: 10.1016/s0277-9536(97)00040-3

Moskowitz J. T, Folkman S. Collette L. Vittinghoff E. Affrontare e umore durante il caregiving e il lutto correlati all’AIDS . Ann Behav Med . 1996; 18 ( 1 ):49–57. doi: 10.1007/BF02903939

 

Foto di Polina Kovaleva:
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2 aprile 2020: autismo in quarantena

di Giulia Giovagnoli

Oggi ricorre la Giornata Mondiale dell’autismo. Non siamo tutti uguali in questo straordinario momento di isolamento e di paura

Passa una pubblicità: una famiglia sorridente si gode la quarantena, condivide momenti di gioia ritrovata per la coatta possibilità di vivere insieme giornate altrimenti trascorse dietro a mille impegni. Con una musica che ormai ci nausea, la televisione consiglia come trascorrere le giornate. Il Coronavirus ci sta regalando ciò che avevamo perso: il tempo con i nostri cari.

Questo vale, però, solo per alcune famiglie, quelle dove il tempo trascorso a casa è prezioso, ricco, da raccontare nei Natali che verranno.

Tuttavia, esiste anche un’altra realtà, ben diversa, dove la quarantena non regala tempo, ma lo sottrae: è il tempo della terapia, della riabilitazione e della socializzazione.

In Italia, le persone che presentano un disturbo dello spettro autistico sono migliaia e ora, come tutti, sono costrette a rimanere a casa. La situazione allora è molto diversa dalla pubblicità.

I genitori che ancora hanno un impiego sono occupati nello smart working e il lavoro non fa sconti nemmeno se si ha nella stanza accanto un bambino che ha bisogno di attenzioni e stimoli costanti. Madri e padri si alternano nel cercare di intrattenerli, ma non è semplice. Gli interessi non sono quelli dei loro coetanei neurotipici, spesso non si può semplicemente fare un puzzle o un disegno. Bisogna inventarsi attività a misura del bambino, tenere conto dei suoi interessi, delle sue capacità e rispettare tempi di attenzione spesso brevi. Se il figlio è grande, intrattenerlo è forse ancora più dura. D’altra parte, lasciarlo da solo significa sapere che penserà ai suoi interessi stereotipati, ripeterà frasi apparentemente senza senso, camminerà avanti e indietro senza uno scopo preciso. I dispositivi elettronici arrivano in soccorso intrattenendolo più a lungo, ma spesso con la conseguenza di aumentare quel soliloquio senza senso. Il genitore lo sa: gli deve lasciare quel tempo da solo, è inevitabile. Intanto, il telefono squilla, il capo chiama, c’è una scadenza da rispettare, un lavoro da mantenere.

Il costo da pagare è il conto emotivo che si presenta quando il genitore si chiede se tutto quel tempo da solo gli abbia fatto male; quando si angoscia pensando alle ore di terapia perse, alle occasioni di socializzazione ormai inesistenti, alla paura di veder svanire le conquiste faticosamente raggiunte; quando si rimprovera per non aver avuto pazienza, si sente in colpa e si rinnova la sofferenza e il senso di impotenza.

Certo, la salute fisica è un bene più grande. Lo sanno perfettamente questi genitori che dal giorno della diagnosi si chiedono: “Cosa succederà quando non ci sarò più?”. Chissà, allora, quanta paura si prova per il contagio, per la morte, quanto timore si può provare di lasciare un bambino o un ragazzo senza aver avuto il tempo per programmare il suo futuro. Chissà come può essere angosciante il pensiero di vedersi sottrarre un posto in terapia intensiva riservato a qualcuno “sano”, qualora il proprio figlio venisse contagiato.

Il disturbo dello spettro autistico ci impone di considerare che l’uguaglianza non è giustizia e che “tutti” è una parola che fa rabbia. Non siamo “tutti uguali” nella vita quotidiana, quando i pomeriggi sono scanditi dagli orari delle terapie, i pasti dai gusti selettivi dei bambini, lo stipendio dal pagamento delle terapie spesso private, la scuola dai programmi differenziati e dagli insegnanti di sostegno. Non siamo “tutti uguali” quando i genitori devono imparare da specialisti come interagire con i loro figli, come stimolarli, come gestirli. Non siamo allora “tutti uguali” adesso, in questo straordinario momento mondiale di isolamento e di paura.

Oggi, 2 aprile, ricorre la Giornata Mondiale per la consapevolezza dell’autismo e forse i palazzi della politica e della cultura verranno illuminati di blu. Forse “tutti gli altri” ricorderanno che esiste anche questa realtà e che ha diritto di essere ascoltata soprattutto adesso. Se non siamo “tutti uguali” nelle difficoltà, non dobbiamo esserlo nemmeno nel riconoscimento dei diritti: il diritto di uscire di casa, di avere un sostegno economico per proseguire le terapie, di avere degli esoneri prolungati dal lavoro, di usufruire di una didattica specializzata e individualizzata.

Forse le luci blu serviranno a ricordare a tutti che il disturbo dello spettro autistico non è il problema di pochi ma una responsabilità comune e, come diceva Fabrizio De André: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Alessitimia in bambini con e senza Disturbi dello Spettro Autistico

di Ilaria Zaffina
curato da Elena Bilotta

“Alessitimia” è un termine che deriva dal greco e nella sua traduzione letterale corrisponde a “senza parole per l’emozione”. Essere alessimitici vuol dire avere difficoltà nell’identificare e nel descrivere le proprie emozioni, a distinguerle da sensazioni somatiche, insieme a una tendenza a focalizzare il proprio pensiero su eventi esterni. L’alessitimia è conosciuta per essere molto diffusa negli adulti con Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) rispetto alla popolazione adulta con sviluppo tipico (ST). Poco invece si conosce sull’incidenza dell’alessitimia tra i bambini con DSA. Lo studio di Griffin e collaboratori del 2015 è il primo ad occuparsi di questa tematica. Nello studio sono stati esaminati 25 bambini (23 M, 2 F) con diagnosi di DSA e/o sindrome di Asperger, di età compresa tra gli 8 e i 13 anni e un gruppo di controllo, 32 bambini (ST) (15 M, 17 F; età 8-12 aa). Uno dei limiti di questo lavoro è riferibile alle dimensioni del campione, mentre uno dei vantaggi è l’utilizzo di valutazioni raccolte da osservatori in relazione con i partecipanti (come i genitori), oltre a quelle dei bambini. Leggi tutto “Alessitimia in bambini con e senza Disturbi dello Spettro Autistico”

Autismo e alessitimia: un problema di integrazione sensorimotoria

di Alessandra Mancini

Evidenze di una ridotta attività delle aree motorie in seguito alla lettura di parole astratte di emozione in individui con un disturbo dello spettro autistico

La difficoltà nell’espressione e nella comprensione del linguaggio delle emozioni è un tratto distintivo dei disturbi dello spettro autistico (DSA). Tale difficoltà fa parte di un deficit, più generale, di rappresentazione dei propri e altrui stati interni, presente sia al livello verbale sia al livello non verbale. Infatti, gli individui con DSA hanno difficoltà a rispondere in maniera appropriata e a imitare le espressioni facciali altrui. Inoltre, “l’alessitimia”, ovvero l’incapacità di identificare e descrivere verbalmente le emozioni, prevale in questa popolazione rispetto alla popolazione con uno sviluppo “tipico”. Tuttavia le cause di tale disturbo del linguaggio affettivo sono ancora oggetto di dibattito.
Secondo Lombardo e Baron-Cohen, esperti di questo disturbo, il deficit nella rappresentazione delle proprie emozioni ridurrebbe l’abilità di usare se stessi per “simulare” la vita mentale e emotiva degli altri.
Il ruolo della “simulazione” delle operazioni mentali a livello cerebrale ha ricevuto abbondanti prove empiriche. Molto nota è, per esempio, la teoria dei neuroni specchio, sviluppata da alcuni ricercatori italiani inizialmente nel campo della “cognizione motoria”, la comprensione dell’intenzionalità delle azioni altrui. Questi ricercatori hanno suggerito che lo scopo dei movimenti altrui viene compreso simulando tali movimenti nel sistema motorio di chi osserva. Leggi tutto “Autismo e alessitimia: un problema di integrazione sensorimotoria”

Autismo, l’importanza della diagnosi precoce

di Livia Colle

Un trattamento tempestivo appropriato può migliorare la qualità della vita dei bambini affetti dal disturbo e delle loro famiglie

Lo sviluppo delle conoscenze e dell’interesse per l’autismo negli ultimi 30 anni è sorprendente. Oggi, citare l’autismo o i disturbi dello spettro autistico evoca nella maggior parte delle persone l’immagine di un individuo con gravi difficoltà sociali: “Sono quelle persone che non ti guardano mai negli occhi, stanno sempre in un angolo e hanno delle manie un po’ strane”, si pensa comunemente. La percezione può essere anche più lieve: “Sono persone molto intelligenti o semi fenomeni… Un po’ strani, però. Ogni tanto dicono delle cose che non ti aspetti, fanno commenti curiosamente ingenui, oppure inadeguati e spiacevoli rispetto al contesto d’interazione”.
Sebbene molto diverse tra di loro, entrambe queste rappresentazioni dell’autismo sono corrette e colgono il nucleo centrale del disturbo: l’incapacità di reciprocità sociale, che può manifestarsi, nelle forme più gravi, con l’assenza di linguaggio, di gesti comunicativi e di sguardi o espressioni emotive e, nelle forme più lievi, con l’inettitudine a costruire relazioni interpersonali con i coetanei e di sostenere in modo fluido e adeguato le conversazioni e il gioco con gli altri. Leggi tutto “Autismo, l’importanza della diagnosi precoce”

L’importanza di un training sulle emozioni espresse con alta intensità e direzione dello sguardo diretto per bambini con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico

di Alessandra Micheloni alessandra micheloni_blog

 

Tra le caratteristiche diagnostiche del Disturbo dello Spettro Autistico si evidenziano una scarsa capacità nel ricercare una piacevole e spontanea condivisione di emozioni sia positive che negative, la condivisione degli interessi con altre persone ed una difficoltà nell’interagire con reciprocità emotiva. Già Kanner (1943) enfatizzò la presenza di difficoltà emotive, descrivendo questi pazienti come indifferenti e non interessati all’altro, egocentrici, emotivamente freddi, distanti e ritirati. Tutte caratteristiche, che negli anni seguenti, sono stati inclusi in un più ampio e centrale nucleo, quello sociale. L’interesse, particolarmente rivolto al riconoscimento facciale, ha dato vita a numerose ricerche, alcune recenti.

La ricerca che ha stimolato il mio interesse e che descrivo in questo post, è quella di Tell et al. (2014), in cui è stata indagata la direzione dello sguardo e gli effetti dell’intensità dell’espressione emotiva come componenti nel riconoscimento dell’emozione sia in bambini con Diagnosi di Autismo che in quelli con uno sviluppo tipico. Tra gli aspetti che caratterizzato la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni, ci sono lo sguardo e la sua direzione, l’espressione facciale, che suggeriscono il motivo e la base del deficit preso in esame in questo articolo e la conseguente difficoltà nell’interazione sociale per i bambini con Autismo. La capacità di percepire nonché comprendere un’emozione, potrebbe migliorare nel momento in cui la condivisione avvenga attraverso una combinazione tra direzione dello sguardo e l’intento di comunicare la propria espressione emotiva. Da queste ipotesi chiamate dai ricercatori “Shared signal hypotesis” si è sviluppata l’idea secondo cui emozioni come la felicità e la rabbia siano maggiormente identificabili quando si orienta lo sguardo in maniera più diretta e dunque più rapidamente “intercettata” dall’altro, che sia un bambino o adulto con Diagnosi di Autismo o un bambino con uno sviluppo neuro-tipico.

Diversamente accade con le emozioni di tristezza e paura, più rapidamente identificate da adulti neuro-tipici rispetto a quelli con Autismo. Inoltre si evidenzia che, adulti con sviluppo tipico, che osservano espressioni facciali di rabbia con lo sguardo diretto, vengono considerate come “più arrabbiati”. Per bambini o adulti con Diagnosi di Autismo è più difficile, invece, “cogliere” l’emozione, se non vi è uno sguardo diretto, rispetto a coloro che presentano uno sviluppo neuro-tipico. Sono stati considerati altri aspetti che possano determinare o meno un riconoscimento adeguato delle emozioni da parte dei bambini con Autismo (Akechi et al, 2009): potrebbero, infatti, non integrare spontaneamente la direzione dello sguardo con l’intento comunicativo, in particolare nella connessione con l’espressione emotiva o all’interno di specifici contesti sociali. Dagli studi effettuati, emerge che una differenza significativa, nel riconoscimento delle emozioni, tra bambini con Autismo e bambini con uno sviluppo tipico, sia dovuta dal livello di intensità con cui vengono presentate: è più facile riconoscere le emozioni se rappresentate con un’intensità maggiore o più marcate rispetto a quelle rappresentate con minor intensità. Tuttavia i bambini con sviluppo tipico riescono con più facilità nel compito di riconoscimento delle emozioni al variare dell’intensità, anche se sono più accurati a un’intensità maggiore (per esempio 50%) rispetto ad una inferiore (25%).

Wallace e colleghi, dalle loro ricerche dimostrano che adolescenti con Disturbo dello Spettro Autistico hanno bisogno di un’espressione facciale delle emozioni più intensa affinché possano riconoscere in maniera più accurata le emozioni proposte. La ricerca di Tell et al, ha proprio lo scopo di esaminare gli effetti della direzione dello sguardo e dell’intensità dell’espressione emotiva nella capacità di riconoscimento dell’emozione mettendo a confronto due gruppi di bambini (22 per ogni gruppo) con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico, con un’età tra gli 8 e i 12 anni. Ai gruppi di bambini, messi a confronto, sono state mostrate delle foto che raffigurano volti con l’espressione delle emozioni di felicità, rabbia, tristezza e paura, includendo anche una con un’espressione neutrale. Tutte le espressioni emotive, sono state create al pc, con lo sguardo diretto o distolto dal 50% al 100% di livello di intensità. Il test a cui sono stati sottoposti i soggetti della ricerca è stato effettuato individualmente in una classe, silenziosa e l’esperimento consisteva in una sessione di 20 minuti. Sono state mostrate delle foto (volti di attori, 6 maschi e 6 femmine), per ogni emozione l’intensità dell’espressione variava da 0% neutrale, al 50% e 100%), suddivise in due tipi di “volto stimolo”, con lo sguardo diretto e con lo sguardo distolto (sguardo verso destra o sinistra), per un totale di 12 foto per ogni emozione, inclusa quella neutrale. Dai dati emersi bambini con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico non differiscono tra loro nell’abilità di riconoscere correttamente l’espressione delle emozioni di felicità e rabbia, raffigurate con un’intensità del 100% e del 50% con lo sguardo diretto o con lo sguardo distolto. Di contro, è emerso il dato significativo che, i bambini con Autismo hanno una minor capacità di riconoscere, rispetto ai bambini con sviluppo tipico, l’emozione di paura per ogni livello di intensità (50% e 100%) e con sguardo diretto o distolto. Anche per l’emozione di tristezza, è emersa una maggior abilità, nei bambini con sviluppo tipico rispetto a quelli con Autismo, nel riconoscimento della stessa, se proposta con un’immagine con intensità al 100% e con sguardo diretto. Per i volti neutrali, è emersa una maggior tendenza dei bambini con Autismo ad etichettarli con un’emozione negativa.

I dati di questa ricerca ci lasciano con il quesito sul motivo per cui alcune tipi di emozioni, come la felicità e la rabbia, vengano captate e riconosciute maggiormente dai bambini con Autismo rispetto a quelle di tristezza o paura, nonostante siano state proposte variando livello di intensità e con differente direzione dello sguardo. E’ stata ipotizzata, una differente attività neuronale, ossia una minor attivazione della parte sinistra dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale sinistra del cervello negli adulti con DSA rispetto a quelli neuro-tipici. Una differenza nel riconoscimento della paura, sta nel fatto che quest’emozione venga comunicata principalmente con gli occhi e ciò potrebbe essere legato alla minor attenzione che gli individui con Autismo prestano a questa regione del volto.

Ciò che ci suggerisce questa ricerca, è che gli adulti che fanno parte della vita dei bambini con Autismo o comunque ogni figura professionale coinvolta nel trattamento degli stessi, debbano lavorare in modo più incisivo ed importante, anche tramite la costruzione di storie sociali, sull’apprendimento delle emozioni negative di paura e tristezza. Considerando che sia la direzione dello sguardo che l’intensità dell’emozione che viene espressa modula la percezione dell’emozione in tutti i bambini, si potrebbe intensificare un trattamento precoce sulle emozioni nei vari contesti sociali (scuola, casa ecc.), anche tramite immagini come quelle utilizzate nella ricerca, costituendo una base per poi lavorare allo stesso tempo sulla comunicazione tra pari, adulti significativi e terapisti permettendo di enfatizzare in vivo con più facilità l’emozione e soprattutto favorendo l’attenzione dei bambini con Autismo sul proprio sguardo.

Riferimenti Bibliografici

TELL, D., DAVIDSON, D. AND CAMRAS, L.A., Recognition of Emotion from Facial Expressions with Direct or Averted Eye Gaze and Varying Expression Intensities in Children with Autism Disorder and Typically Developing Children, Hindawi Publishing Corporation Autism Reasearch and Treatment, Vol 2014, Article ID 816137, p.11.

Primo passo per la caduta del muro dell’autismo psicoanalitico francese

di Alessandra Micheloni 

Il docufilm “Le Mur”, realizzato da Sophie Robert, apre finalmente gli occhi al mondo coinvolto nell’Autismo. Una conquista importante dopo una dura lotta per la conoscenza e la comprensione di ciò che accade in Francia, nella Svizzera francese e nel Belgio francofono.

Gli psicanalisti francesi diffondono e parlano di teorie che spiegano l’origine e la causa dell’autismo ma non di scienza, ricerca, trattamento e presa in carico del bambino autistico.

Dalla raccolta delle interviste, presenti nel film, emerge l’idea che il bambino autistico in Francia si chiuda dentro di sé, si distacchi dal mondo e si rifiuti di mettere in moto i meccanismi del linguaggio. Come afferma lo psicanalista Alexandre Stevens non esiste una differenza strutturale tra psicosi e autismo. L’ autismo infatti è definito come “una situazione estrema che fa parte del gruppo delle psicosi” proveniente dunque da una cattiva relazione con la madre. Leggi tutto “Primo passo per la caduta del muro dell’autismo psicoanalitico francese”

Il potenziale del Programma Teacch per l’Autismo

di Alessandra Micheloni

Il programma TEACCH (Treatment and Education of Autistic and related Communication-handicapped Children) prevede una presa in carico globale in cui collaborano genitori e professionisti. Il punto di forza di tale approccio è la multidisciplinarietà in cui esiste una continua interazione fra servizi, professionisti e familiari. In particolare l’inclusione dei genitori nell’intervento dei propri figli con autismo sembra costituire un grande potenziale in quanto permette di incrementare le capacità nei bambini e diminuire lo stress sia nei genitori che nei bambini. Proprio partendo da questo importante elemento, uno studio realizzato da “Tutti giù per terra” in collaborazione con “Neuropsichiatria Infantile” dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma, ha ampiamente messo in luce il potenziale del metodo Teacch.

Lo studio longitudinale (D’Elia, Valeri et al, 2013), condotto su 30 bambini di età prescolare con disturbi dello spettro autistico, ha voluto dimostrare, infatti, i potenziali benefici del trattamento. Sono stati messi a confronto due gruppi di bambini. Il gruppo sperimentale (EG) di 15 bambini ha seguito il programma Teacch a bassa intensità, mentre il gruppo di controllo (CG) costituito da altri 15 bambini ha seguito un approccio non specifico. I risultati della ricerca hanno evidenziato che un programma Teacch a bassa intensità a casa e a scuola può portare a un decremento dello stress genitoriale e della comorbilità psicopatologica. Lo studio inoltre sottolinea come l’applicazione di tale metodo negli ambienti naturali in cui vive il bambino, ossia casa e scuola, permetta che l’approccio sia consolidato e generalizzato e che gli stessi genitori ed insegnanti possano essere dei validi e fondamentali co-terapisti.

La caratteristica del metodo Teacch prevede un coinvolgimento globale dei vari contesti con i quali il bambino interagisce e permette a quest’ultimo di entrare in contatto con un ambiente strutturato e prevedibile, in modo da facilitare e velocizzare le attività che il bambino dovrà svolgere, migliorando così le abilità ed estinguendo i comportamenti mal adattivi.

Meglio si può comprendere l’autismo se leggiamo ciò che scrive, con parole semplici e spontanee, G. Nicoletti, giornalista e padre di un figlio autistico, nel suo libro ‘Una notte ho sognato che parlavi’: “L’autistico opera per calmare le proprie ansie e quindi ribadire a se stesso che nulla cambierà rispetto alle sue abitudini. Il mondo deve girare come le lancette di un orologio, ogni attimo deve sovrapporsi a quello corrispondente del giorno prima, in cui si facciano le stesse identiche cose che si sono sempre fatte ogni giorno a quell’ora”.

Questo padre ci comunica quanto sia difficile “entrare in sintonia quotidiana con una persona che non abbia a fuoco i principi di inizio e fine” e spiega che suo figlio “Tommy vive un tempo ciclico, il suo tempo è quello dell’eterna routine. E quando qualcosa mette in crisi questo suo ordine cosmico, si scatena per lui un cataclisma che lo annichilisce, come se fosse l’annuncio della fine del mondo”.

Bigliografia

D’Elia L., Valeri G., Sonnino F., Fontana I., Mammone A. & Vicari S., (2013) A Longitudinal Study of Teacch Program in Different Settings: The Potential Benefits of Low Intesity Intervention in Preschool Children with Autism Spectrum Disorder. J Autism Dev Disord DOI 10.1007/s10803-013-1911-y

Nicoletti G., (2013). Una notte ho sognato che parlavi. Milano, Collezione Strade Blu Mondadori.

L'autismo attraverso le parole e gli occhi di due padri

di Alessandra Micheloni

Domenica 3 novembre oltre 200 persone si sono recate a Villa Ada a Roma in occasione della I° Edizione dell’evento ‘Corriamo per l’autismo’ organizzata dall’associazione ‘Divento Grande Onlus’.

Alla gara, competitiva (percorso di 8 km) e non competitiva (4 km) erano presenti sportivi, amanti dello sport, famiglie, genitori e bambini che tutti insieme hanno creato un clima di vicinanza, condivisione e solidarietà per dare un segnale e sostenere la causa dell’autismo.

Subito dopo la ‘gara’ ho avuto la possibilità di conoscere Salvatore Bianca, vicepresidente dell’associazione e soprattutto padre di un figlio autistico, il quale ha parlato dell’evento come occasione di “Sfida” che coinvolgesse il mondo dei runner, in questa mattinata, per il piacere di stare insieme, per puntare sul volontariato e sul sostegno all’associazione affinché possa realizzare progetti che incrementino sia l’autonomia che la socializzazione, una delle più grandi difficoltà che i bambini si trovano ad affrontare.

Questo “esperimento”, così lo chiama Salvatore Bianca, ha permesso di “stare insieme, correre insieme e dare un contributo alla solidarietà” e di “scoprire con entusiasmo che si può fare, si può correre di nuovo nei prossimi anni divenendo un appuntamento fisso per lo sport e la solidarietà”.

Queste riflessioni provengono da un padre che apertamente e con semplicità ha espresso la propria felicità per aver potuto regalare al proprio figlio quattordicenne, momento di crescita in cui sta maturando maggior consapevolezza, una giornata di festa, di affetto, di sorrisi provenienti da tante persone presenti che gli vogliono bene e che non considerano lui né gli altri bambini ‘diversi’ ma ‘speciali’.

Salvatore Bianca con tante altre famiglie presenti hanno creato relazione con tutti i bambini, sono stati con e insieme a loro. Ho visto bambini ridere, divertirsi e correre incitati dalle persone vicine o viceversa che loro stessi trascinavano con allegria e senso di libertà.

L’autismo “non è una malattia ma una condizione” afferma Salvatore Bianca che quella domenica, grazie allo sport e a coloro che hanno partecipato, ha avuto modo di comunicarlo.

C’è chi, invece, per comunicare al mondo l’essenza della relazione con il proprio figlio autistico ha utilizzato l’arte, la fantasia, la personalità facendo degli scatti con la sua macchina fotografica. E’ il caso del fotografo e padre Timothy Archibald che ha fotografato suo figlio Elijah.

ECHOLILIA, UN PADRE E L`AUTISMO DEL FIGLIO

Le foto esprimono ciò che gli occhi di questo padre vedono, osservano e che ha dato loro modo di “sperimentare insieme”. Sono emozioni, momenti, attimi in cui padre e figlio “creano un contatto unico e speciale”. Credo sia qualcosa che vada al di là del significato della parola ‘autismo’, delle diagnosi da manuale o delle parole degli esperti.